Il disastro della fase 2 spiegato in tre articoli

La riapertura dopo l'emergenza è una tragedia: «Una micro-impresa su cinque non riaprirà». Governo assente, ma per Alitalia annuncia «non meno di 3 miliardi»

Quanto al bollettino giornaliero del disastro economico italiano causato dal lockdown per l’emergenza coronavirus, oggi il premio per la fotografia più deprimente va a Repubblica. In un articolo dedicato agli effetti della recessione sul commercio, settore costituito in Italia per lo più da «micro-aziende», il quotidiano romano mette in fila numeri e allarmi da brivido.

«”Qui su 22 mila esercizi, almeno 3700 non rialzeranno mai le saracinesche”, dice Marco Barbieri che guida Confcommercio Milano. “Qui moltissimi le riabbasseranno subito dopo il 18 maggio”, prevede David Sermoneta, presidente di Confcommercio Centro Roma».

Dopo il suicidio mercoledì scorso di un imprenditore napoletano, titolare di una piccola falegnameria in città, è partito l’«angoscioso conteggio» delle «vittime collaterali dell’emergenza Covid», scrive Repubblica. «Cifre che corrispondono non solo ad aziende, negozi, botteghe artigianali. Ma persone. Vite». Le quali purtroppo però, al netto degli annunci di misure «senza precedenti» da parte del governo, hanno ben poco su cui contare per provare a riprendersi dal tracollo degli affari indotto dall’emergenza.

Scrive ancora Repubblica:

«Perché se le grandi fabbriche si stanno faticosamente rimettendo in moto, le micro-imprese invece respirano a stento con il poco ossigeno in arrivo dallo Stato. Sono quelle, come hanno ricordato su queste pagine Tito Boeri e Roberto Perotti, con meno di 5 addetti, che contano per un quarto del lavoro dipendente, ma per il 40 per cento dei lavoratori rimasti a casa dopo il 4 maggio».

Il problema, oltre alla prolungata chiusura imposta dall’esecutivo, è che misure come la cassa integrazione in deroga o i finanziamenti garantiti sono «generose» ma «incagliate nelle lentezze della burocrazia e nell’endemica diffidenza delle banche». In sostanza, appunto, a parte gli annunci del governo, non si è mosso nulla.

«Secondo Confcommercio, il 55 per cento delle imprese del terziario di Milano, Lodi, Monza e Brianza, uno dei cuori dell’economia italiana, ha chiesto la cassa integrazione, ma il 95 per cento dei dipendenti non ha ancora visto un euro».

Il risultato è riassunto nel titolo della cronaca di Repubblica: «Piccole imprese, il 20 per cento non riaprirà». Il 20 per cento significa una impresa su cinque. Non è un danno da poco, visto che si parla di realtà che «contano per un quarto del lavoro dipendente».

«Il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, [prevede] “la chiusura definitiva di 60 mila imprese tra ristoranti e bar”. Una su cinque considerando che il totale dei pubblici esercizi rappresentati da Fipe-Confcommercio è intorno ai 300 mila. E come raccontano altri numeri: Confartigianato stima un crollo del 57 per cento (37,7 miliardi) dei fatturati del settore a marzo, che diventa -71 per cento in aprile. Cna, l’altra associazione degli artigiani, prevede ricavi quasi dimezzati (-42 per cento) nel 2020, con punte del -66,3 per cento nel turismo, -56,7 per cento per la moda e -54 per cento per il commercio».

Insomma la fantomatica “fase 2” parte molto male. Azzoppata non solo dall’ormai consueta confusione nelle regole, ma soprattutto dalla scarsa capacità del governo e dello Stato di fare i conti con la realtà e con le vere necessità del paese. Lo aveva ben spiegato Maurizio Lupi nel suo formidabile sfogo alla Camera conto il cosiddetto “Cura Italia”, uno dei famosi decreti con cui Giuseppe Conte avrebbe – a detta sua – salvato l’economia italiana dalla tragedia.

Ebbene, gli effetti concreti di queste misure clamorose sono sotto gli occhi di tutti. Con in più il paradosso del caso Alitalia: come segnalato da Lupi, mentre le aziende annegano nelle difficoltà, il governo approfitta della decretazione d’urgenza per portare avanti una scelta, la nazionalizzazione della compagnia di bandiera, che non c’entra nulla con l’emergenza coronavirus. Anche perché la crisi di Alitalia non è colpa della pandemia: il vettore tricolore è in panne da decenni.

Eppure il governo sembra intenzionato a proseguire imperterrito su questa linea, incurante della quantità abnorme di risorse che potrebbe richiedere. Mentre – è bene ricordarlo – le micro-imprese, che contano occupano un quarto dei lavoratori dipendenti, muoiono a mucchi.

È di ieri l’annuncio che la nazionalizzazione di Alitalia potrebbe costare altri 3 miliardi di euro allo Stato. Cioè ai contribuenti. Tre miliardi. Oltre a quelli già impiegati (o meglio già bruciati) prima della crisi Covid.

Non ci sono commenti da aggiungere a quel che scrive oggi il Sole 24 ore:

«La politica degli annunci su Alitalia ha riservato ieri una sorpresa. La Nuova Alitalia nazionalizzata avrà un capitale “non inferiore ai 3 miliardi” di euro, ha affermato il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, nella risposta al Senato a un’interrogazione del Pd, primo firmatario Bruno Astorre. (…) Il governo ha già stanziato 500 milioni per nazionalizzare Alitalia nel decreto legge “Cura Italia”. L’annuncio del ministro del M5S ha colto quindi tutti di sorpresa. Il 29 aprile alla Camera il commissario di Alitalia, Giuseppe Leogrande, a una domanda su quanti soldi sono necessari per fare la “Newco” aveva risposto: “Lo stanziamento è stato stimato in 500 milioni per il 2020, sicuramente per il 2020 è congruo”. Adesso Patuanelli parla di 3 miliardi. Da quando è stata commissariata, tre anni fa, Alitalia ha già ricevuto 1,3 miliardi dallo Stato in “prestito”. Soldi tutti bruciati dalle perdite (a cui vanno sommati 145 milioni di interessi maturati fino a maggio 2019). Questo senza considerare i 500 milioni del decreto “Cura Italia”, non ancora versati».

Naturalmente il colossale esborso tanto voluto da M5s e Pd è giustificato per Patuanelli dalla prospettiva di «un vero piano di rilancio sul mercato del trasporto aereo». A dirla tutta, di “veri piani di rilancio” di Aliatalia se n’è già visto qualcuno negli ultimi anni, e i frutti sono quelli che sono. Comunque la sostanza è quella riassunta dal quotidiano economico: a parte l’iniezione di capitale da favola, che perfino i concorrenti francesi e tedeschi guarderebbero con invidia, come spera di competere sul mercato una compagnia aerea con 92 velivoli (la dotazione annunciata da Patuanelli) quando, per dire, Lufthansa ne ha 763 e Air France-Klm 546?

Scrive il Sole:

«Il governo dovrebbe spiegare non solo dove trova i 3 miliardi ma anche a cosa servirebbero. Tenuto conto, tra l’altro, che sono soldi dei contribuenti».

Per concludere il quadro del disastro della “fase 2”, per oggi può bastare l’intervista concessa da Maurizio Stirpe, vicepresidente di Confindustria con delega al lavoro e alle relazioni industriali, al Messaggero. Il tema è l’intenzione del governo di inserire nel “decreto maggio” (altro fatidico tocco di bacchetta magica annunciato da Conte & co.) un «taglio dell’orario di lavoro a parità di salario». Sarebbe, secondo l’esecutivo, una misura per contrastare la disoccupazione. Il vecchio “lavorare meno, lavorare tutti”. Ma al mondo delle imprese certe idee di decrescita felice non piacevano già negli anni Settanta, figurarsi oggi.

Dice Stirpe:

«La nostra produttività risulta già gravemente compromessa da vent’anni di politiche che non hanno saputo rilanciare la competitività del paese. Avanzare certe soluzioni significa cercare lo scontro con le imprese. (…) Non credo che in questo modo si riesca ad attenuare il problema della disoccupazione. Per riuscirci bisogna mettere il sistema produttivo in condizione di accedere ai mercati con una frequenza maggiore rispetto al passato». 

Tradotto: più che di assistenzialismo e di nazionalizzazioni, il governo dovrebbe occuparsi di “mettere a terra” quel che ha promesso. Metta davvero le imprese nelle condizioni di ripartire, invece di lasciare i lavoratori nelle condizioni di restare a casa. 

«Il virus ha provocato effetti asimmetrici tra i paesi: è fondamentale perciò calibrare bene gli interventi affinché l’Italia non perda terreno rispetto ai suoi competitor. Soltanto così sarà possibile mettere un freno all’emorragia di posti di lavoro».

Servono «posti di lavoro», quindi servono imprese alleggerite, non appesantite da nuovi debiti generosamente “agevolati” dallo Stato. 

«Bisogna passare dai prestiti agli indennizzi per far sentire alle aziende il supporto dello Stato in un momento di grande sofferenza. Ed è indispensabile che dietro certe operazioni non vi siano logiche stataliste».

Ma tra la prospettiva di buttare altri 3 miliardi per Alitalia e assurde discussioni sull’ipotesi che lo Stato possa pretendere «un posto in Cda» in cambio degli aiuti alle imprese (vedi l’intervista, con mezza smentita, del vicesegretario del Pd Andrea Orlando), ecco, proprio non ci siamo.

Foto Ansa

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