Perché a cento anni dai fatti la Turchia continua a negare la realtà del genocidio armeno? Perché il governo di Ankara reagisce con sfacciato sdegno contro tutti coloro che chiamano col suo vero nome il crimine compiuto dall’Impero Ottomano nei suoi ultimi giorni, compresa un’autorità morale riconosciuta come papa Francesco? Me lo spiegò nove anni fa un giornalista turco di origine armena, Hrant Dink, fondatore del settimanale Agos. «Vede», mi disse, «quella turca è un’identità recente, fondata su una storia e una cultura nuove. In questa storia il posto dell’armeno è quello del cattivo. Se voi contraddite questa narrazione, mettete in crisi l’identità turca. Ci sono anche altre paure, ma quella principale riguarda la demolizione dell’identità turca».
Dietro l’apparente compattezza del monolite turco si distinguono linee di faglia che lo rendono simile agli altri paesi frutto dello smembramento dell’Impero Ottomano e che domani potrebbero mettersi in moto. Fra i 75 milioni di cittadini turchi si contano 13,5 milioni di curdi sempre più inquieti e 13-15 milioni di aleviti, musulmani sui generis affini agli alawiti siriani ai quali appartiene Bashar el Assad. La scelta di campo di Ankara dalla parte dei ribelli nel conflitto siriano e l’alleanza di fatto con l’Isis in funzione anti-curda stanno gettando i semi di tensioni interne a venire che potrebbero imprimere alla Turchia le stesse spinte centrifughe in azione in Siria, Iraq, Libia e Yemen.
Coi turchi bisogna essere pazienti, diceva Hrant Dink, perché non sono dei negazionisti, ma degli indottrinati: sin da bambini gli insegnano la storia in un certo modo. Ma bisogna anche essere intransigenti, diciamo noi, per il loro stesso bene. Al giorno d’oggi la disgregazione non si evita col fanatismo dei miti fondatori che stridono con la verità storica, ma riconoscendo i diritti politici a singoli e comunità nei fatti e non a parole. Dink pagò col suo sangue, 50 giorni dopo l’intervista con noi, la sua virile disponibilità al dialogo. Al suo funerale 100 mila turchi portavano un cartello con su scritto «io sono armeno, io sono Hrant Dink». È ora che tornino a farsi sentire.