Marianne e Maometto sono compatibili? Parla Elisabeth Lévy

Interviste all'intellettuale laica francese, una guastafeste che non accetta di farsi tappare la bocca dai nuovi gendarmi del pensiero

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Per i salotti della sinistra chic parigina, è un’infrequentabile reazionaria. Il Nouvel Obs l’ha recentemente sbattuta in prima pagina sotto il titolo “Néo-fachos”, i nuovi fascisti, accanto alle altre mosche bianche del dibattito intellettuale francese, Alain Finkielkraut, Éric Zemmour, Renaud Camus, Ivan Rioufol, Robert Ménard, tutti “accomunati”, secondo il settimanale della gauche benpensante, «dall’ossessione di un’identità bianca e cristiana». Eppure lei, Elisabeth Lévy, intellettuale ebrea e ultralaica nata e cresciuta a Marsiglia da padre e madre di origini algerine prima di salire nella capitale, è una figlia prediletta della gauche. Negli anni Ottanta era una mitterrandiana convinta. Lo votò a occhi chiusi, François Mitterrand, quando si presentò e vinse nel 1981 dinanzi al cristiano-liberale Valéry Giscard d’Estaing, e le sue prime esperienze nella carta stampata coincidono con la nascita della rivista Globe, il «tempio dell’antirazzismo e del mitterrandismo militante», diretta da Bernard-Henri Lévy. Ma l’amore con la sinistra si è incrinato bruscamente quando ha capito che la «pretesa della gauche di detenere il monopolio della morale» era incompatibile con le sue idee e la sua visione del mondo.

Da giornalista ha condotto le sue crociate politicamente scorrette prima sulle pagine del settimanale Marianne, poi scrivendo un pamphlet incandescente contro i Maîtres censeurs di Saint-Germain-dès-Prés, e infine nel mensile che ha fondato nel 2007, Causeur, oggi tribuna degli insubordinati al pensiero unico. Nel 2012 ha pubblicato La gauche contre le réel, saggio al vetriolo contro i suoi ex compagni di battaglie divenuti «insopportabilmente puritani» e «conformisti», e da quel momento è considerata l’intellettuale réac più impertinente di Francia. Ma forse la formula che meglio si addice a Elisabeth Lévy è quella che Marc Cohen, editorialista di Causeur e storico fondatore dell’Idiot international, ha recentemente utilizzato per qualificare un’altra figura importante del femminismo francese come Elisabeth Badinter: «laica punk». Sì, una laica spettinata, intimamente contraria, ma anche una femminista ilare, gioiosa, che alla stregua della maggior parte dei collaboratori del suo magazine guastafeste non accetta di farsi tappare la bocca dai nuovi gendarmi del pensiero che affollano i salotti televisivi e le pagine di opinione dei giornali progressisti.

Tempi l’ha incontrata per un lungo colloquio, durante il quale si sono affrontati i grandi temi del dibattito politico-mediatico, Europa, immigrazione, islam, integrazione, laicità, a partire dall’annus horribilis appena trascorso dalla Francia. «Dopo gli attentati terroristici di gennaio 2015 nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato kosher Hyper Cacher, per qualche giorno sembrava che ci fosse una vera e propria presa di coscienza da parte della classe politica e di tutti i francesi a proposito del pericolo islamista. Ma dopo solo due settimane la parentesi della République determinata a combattere contro quella minaccia si era già chiusa. Il 20 gennaio, durante il suo messaggio di auguri alla stampa, il premier socialista, Manuel Valls, ha parlato di “apartheid territoriale, sociale ed etnico” in Francia, dicendo sostanzialmente che i colpevoli eravamo noi francesi, noi occidentali, che i responsabili del male che ci avevano fatto eravamo noi», dice a Tempi Lévy.

«Tutti sulla stessa barca»
«Dopo le stragi del 13 novembre, invece, le cose sono andate diversamente. Al Bataclan e nei bar dell’est parigino, i terroristi non hanno colpito dei disegnatori “colpevoli” di aver pubblicato alcune vignette satiriche su Maometto e l’islam, o degli ebrei “colpevoli” di essere ebrei, ma dei francesi “innocenti”. Abbiamo così capito di essere tutti nella stessa barca e che non si poteva più “noyer le poisson”, e cioè eludere i grandi problemi che si nascondevano dietro quegli attentati», spiega Lévy. Mentre a gennaio, in uno stato di intontimento emotivo, la Francia e i francesi sembravano essere convinti di poter cancellare tutto dietro i movimenti di solidarietà e i “Je suis Charlie”, dopo il 13 novembre ci si è resi conto che era arrivato il momento di passare all’azione, di agire concretamente, con perquisizioni e arresti, e non soltanto con l’unanimismo e nuovi slogan, che era arrivato il tempo della riflessione. «Per la prima volta, tra i rappresentanti del culto musulmano in Francia, ci si è detti che la situazione era veramente grave, che andava data una risposta concreta al più presto. Per la prima volta ci si è chiesti apertamente: perché questi giovani non amano la Francia, la République e i valori occidentali? Perché questi giovani si definiscono anzitutto come musulmani contro il resto del mondo? Ci si è resi conto che un’intera generazione era oramai perduta e questo era diventato impossibile da ignorare», spiega Lévy.

«I ghetti, le banlieue svantaggiate, le discriminazioni, l’idea che la Francia era colpevole di tutto, sono passati in secondo piano dopo le stragi di novembre. Sempre più persone, anche a sinistra, hanno preso atto del fallimento del multiculturalismo, dell’impostura che si cela dietro frasi come “l’immigrazione è una fortuna, un arricchimento”, e del problema di un islam che non riesce ancora a integrarsi alla Francia. Dopo le stragi di novembre c’è stata una reazione, una scossa. Ora, però, bisogna fare attenzione a non annegare tutto nella solita ondata emotiva, in un’overdose di bandiere, marsigliesi, selfie patriottici e discorsi solenni che certamente aiutano a rafforzare il sentimento di appartenenza alla nazione, ma non servono da soli a risolvere i problemi concreti».

L’esempio della comunità ebraica
Marianne e Maometto sono compatibili? «Ribadisco forte e chiaro ciò che ho scritto lo scorso anno nel numero di Causeur uscito dopo gli attentati di gennaio: la Francia può essere una soluzione per l’islam, un’opportunità, come lo è stato per gli ebrei. Tra la Francia e gli ebrei c’è stato un accordo, sono state fissate delle regole. Da più di duecento anni la comunità ebraica è organizzata attorno al Concistoro, gli ebrei si sono integrati alla Francia, la amano e non passano il loro tempo a recriminare e a dire che è brutta e cattiva, nonostante il crescente clima di antisemitismo», afferma Lévy prima di aggiungere: «È necessario un patto, ma non solo un patto scritto. La massa silenziosa dei musulmani deve rompere questo silenzio e accettare le regole del gioco, e cioè realizzare la sintesi tra pubblico e privato, laico e religioso, individuo e comunità, che molti altri hanno fatto prima di loro. Per integrarsi in un paese pluralista come la Francia, la comunità musulmana deve accettare quello che Finkielkraut ha chiamato il “dolore della libertà”, deve accettare che il suo Dio o il suo profeta possano essere insultati da dei vignettisti, deve accettare che aprendo un giornale possa essere ferita da quanto vi è scritto o disegnato. In Francia è la laicità che deve essere difesa innanzitutto. Bisogna iniziare a definirsi prima come francesi che come musulmani».

Il capodanno da incubo trascorso a Colonia da centinaia di donne, vittime di violenze sessuali commesse da un gruppo di uomini di cultura arabo-musulmana, ha fatto emergere prepotentemente alcune scomode verità per i paladini del vivre-ensemble e per i buonisti di ogni latitudine. «Mi dispiace per i grandi apologeti del multiculturalismo e per i cantori della mixité, ma gli abusi di Colonia sono un affaire etnico. La realtà è che centinaia di uomini di cultura arabo-musulmana hanno stuprato delle donne occidentali perché erano occidentali, dunque libere, dunque delle puttane. Punto», dice Lévy.

Abolire l’utero in affitto
«Bisogna ovviamente fare dei distinguo, sarebbe devastante criminalizzare tutte le popolazioni implicate. Ma ciò che possiamo dire è che c’è una differenza profonda tra la visione della donna che è stata appresa da quegli uomini che hanno palpeggiato, molestato, strappato gonne e abusato di un gruppo di ragazze vestite all’occidentale, e la visione della donna in Occidente. La polizia ha cercato di nascondere i fatti, i media tedeschi pure. In Francia si è cercato di minimizzare, ma era impossibile negare, perché è stato toccato qualcosa di profondo. È la guerra di Troia, è la donna preda e bottino di guerra, è il “touche pas à ma soeur”, il “touche pas à ma femme”, non toccare mia sorella, non toccare la mia donna. È qualcosa di arcaico. I fatti di Colonia hanno portato sotto i riflettori lo scontro tra due culture antagoniste: da un lato una cultura repressiva nei confronti delle donne, dall’altra una cultura dove per le donne è normale scegliere liberamente il proprio partner». Dall’afasia delle suffragette occidentali, dal silenzio assordante delle senonoraquandiste di ogni lido, Elisabeth Lévy si dice «sconcertata»: «La maggior parte delle femministe cerca di cancellare quanto successo a Colonia e anzi trova il coraggio di dire che è colpa dell’uomo bianco perché non è intervenuto. È uno scontro antropologico quello che si sta verificando».

In Francia, così come in tutti paesi dell’Europa occidentale, non passa giorno senza che un giornale dedichi un articolo demonizzante all’“altra Europa”, al blocco dell’Est formato da Ungheria, Polonia, Slovacchia, Slovenia, a quei paesi che respingono i dogmi del politicamente corretto su immigrazione e islam. «In realtà tutti li invidiano perché hanno carattere. Hanno ragione a difendere i loro interessi. Il premier ungherese Orban ha certamente esagerato in alcune dichiarazioni sugli immigrati, ma quando dice che non ha voglia che l’Ungheria diventi un “grande campo rifugiati” come Marsiglia lo capisco. Lo capisco molto bene». Anche il Front national in Francia sostiene da tempo la necessità di regolare i flussi migratori e anche Florian Philippot, il braccio destro di Marine Le Pen e vicepresidente del partito frontista, ha recentemente dichiarato che nel 2025, se non si cambierà verso, la Francia sarà una «grande Marsiglia». «La crescita del Fn durante le ultime scadenze elettorali – continua Lévy – non può essere trascurata. È il segno dell’aspirazione di sempre più cittadini a voler difendere la Francia, che a loro avviso è fortemente minacciata. C’è tuttavia un grande scarto ideologico tra la giovane Marion-Maréchal Le Pen, cattolica, identitaria e liberale, e Florian Philippot, colbertista, progressista e dialogante sui cosiddetti “nuovi diritti”, che nel futuro prossimo metterà a dura prova la salute del Front national».

Il prossimo 2 febbraio, il Parlamento francese ospiterà un convegno per l’abolizione universale dell’utero in affitto organizzato da Sylviane Agacinski, étoile del femminismo francese, nata e cresciuta nella gauche, nonché moglie dell’ex premier socialista Lionel Jospin. Alla Agacinski, così come a due femministe controcorrente come Marie-Jo Bonnet ed Eliette Abécassis, Causeur ha dedicato poco tempo fa un encomio, per l’appello contro la maternità surrogata che assieme ad altre centocinquanta personalità hanno pubblicato su Libération. «Sono assolutamente contro l’utero in affitto, non mi piace quando viene toccato il concepimento dei bambini. È il cuore del sistema simbolico. Vorrei che si smettesse di nascondere che per fare un bambino ci vogliono un uomo e una donna», afferma convintamente Lévy. «Il problema più grande è che si toccano le coordinate antropologiche, stiamo cambiando l’essere umano del terzo millennio. L’idea mi procura molto dispiacere. Ci sono state delle rivoluzioni con i metodi contraccettivi: si è disconnessa la sessualità dalla riproduzione. Ora, però, sta succedendo il contrario: viene disconnessa la riproduzione dalla sessualità, ora si possono fare dei bambini in laboratorio, rapidamente e da soli. Non so a cosa potrà portare tutto ciò fra qualche anno, ma faccio molta fatica a pensare che avrà degli effetti positivi sul futuro dell’essere umano. Un’umanità dove gli uomini possono fare dei figli da soli senza che ci sia un incontro con l’alterità che è l’altro sesso è inquietante. Se non si cambia verso, ci dirigiamo verso un’indifferenziazione dei sessi. Sono reazionaria anche per questo, mi piace il mondo di prima, quando si facevano i bambini a letto».

Foto Ansa

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