Dzurinda: «La guerra di Putin ci minaccia tutti. A Orbán dico: l’Europa deve restare unita»

La guerra in Ucraina vista dai vicini del Gruppo di Visegrád. Intervista all’ex premier slovacco presidente del Martens Centre

Barricate a Kiev, Ucraina, 10 aprile 2022 (foto Ansa)

Non esita a chiamare l’aggressione di Putin «una minaccia esistenziale» per l’intera Europa Mikuláš Dzurinda, l’uomo che da capo del governo della Slovacchia portò il suo paese nella Nato e nell’Unione Europea, e che oggi è presidente del Wilfried Martens Centre for European Studies, think tank ufficiale del Ppe. In virtù di tale curriculum, Dzurinda è indubbiamente tra le personalità meglio titolate a parlare dell’invasione dell’Ucraina dal punto di vista delle nazioni vicine, quel Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e appunto Slovacchia) che vanta una certa esperienza storica in materia di “ingerenze” da parte di Mosca. L’ex premier di Bratislava ha accettato di rispondere alle domande di Tempi all’indomani della sorprendente riconferma in Ungheria di Viktor Orbán, che con le sue posizioni non proprio ostili verso Putin ha introdotto una inedita crepa nel “monolite” di Visegrád.

Presidente Dzurinda, il mese scorso il capo del Ppe Donald Tusk ha invocato la «deputinizzazione» dell’Occidente, facendo i nomi, tra gli altri, di Salvini, Le Pen e Viktor Orbán. Eppure dopo la vittoria alle urne lo stesso Orbán ha condannato la guerra di Putin, gli ha chiesto un cessate il fuoco immediato e ha offerto ospitalità ai negoziati russo-ucraini. L’Unione Europea in che modo deve guardare al primo ministro ungherese? Lei lo conosce personalmente da tempo, vero?

Sì, lo conosco da quasi un quarto di secolo, dall’autunno del 1998. Tutto quello che lei ha ricordato è corretto, ma nello stesso tempo Orbán ha anche proclamato che l’Ungheria non accetterà mai un divieto di importare gas e petrolio dalla Russia. Ha detto letteralmente che una simile misura rappresenterebbe per Budapest «una linea rossa» da non oltrepassare. Non va dimenticato inoltre che l’Ungheria non ha fornito all’Ucraina una sola arma e anzi ha impedito il transito di armi destinate all’Ucraina attraverso il proprio territorio. Un ingenuo direbbe che l’approccio di Orbán appare ambiguo, io temo invece che non sia affatto ambiguo: a me sembra evidente che Viktor Orbán agisce come un vero e proprio alleato di Putin.

È ostile all’Unione Europea?

La sua politica rispetto all’Unione Europea non è centripeta ma centrifuga. Questo è il problema. Se gli altri 26 paesi membri resteranno uniti, prima o poi si arriverà a interrompere l’importazione di gas e petrolio dalla Russia. Che l’Ungheria invece parli di «linea rossa» da non oltrepassare è molto pericoloso.

La maggior parte della stampa europea aveva previsto un testa a testa alle ultime elezioni ungheresi. Lei si aspettava una vittoria così netta di Orbán? Che cosa del popolo ungherese non hanno saputo cogliere tanti osservatori?

Innanzitutto devo ammettere di essere tra quanti sono rimasti sorpresi dal risultato del voto, malgrado io conosca Orbán da lungo tempo. È stato uno shock anche per me. Quanto ai motivi del risultato, credo che uno sia l’importanza che riveste la questione dell’identità nazionale e culturale per la grande maggioranza degli ungheresi, soprattutto nelle campagne. Molti di loro ancora avvertono il Trattato di Trianon alla fine della Prima Guerra mondiale come un’enorme ingiustizia. E Orbán ha alimentato efficacemente questo sentimento per decenni. Poi, negli ultimi anni, dopo che Orbán ha conquistato i media (sì, lo ha fatto) e ristretto le libertà accademiche (ha fatto anche questo), è stato criticato dalle istituzioni Ue non solo per aver infranto i princìpi dello stato di diritto – cosa vera –, ma anche per la normativa che inquadra i diritti della comunità Lgbt, l’educazione dei bambini e altre questioni culturali, sebbene queste siano materie di competenza nazionale. È stato un errore. Orbán si è così posizionato – con successo – nel ruolo del grande difensore dell’identità nazionale e culturale ungherese. È questa la ragione principale che gli ha permesso di vincere così nettamente.

Mikuláš Dzurinda, presidente del Martens Centre, think tank del Ppe, già primo ministro della Slovacchia (foto Ansa)

Un paio di giorni dopo la sua rielezione l’Unione Europea ha deciso di attivare contro l’Ungheria il meccanismo di condizionalità legata al rispetto dello stato di diritto, risparmiando invece la Polonia. Una differenza di trattamento che ha spinto Orbán e i suoi sostenitori a denunciare una ritorsione “politica” da parte dell’Ue. In Italia anche diversi osservatori di sinistra hanno interpretato la decisione come volontà di stringere i legami con la Polonia antiputiniana e marginalizzare invece l’Ungheria reazionaria e putiniana. Lei che ne pensa? L’Europa deve preoccuparsi di simili letture?

Premetto che tocca agli esperti valutare l’aderenza dei paesi ai princìpi dello stato di diritto. È il ruolo della Commissione Ue. Ed è compito delle istituzioni europee fare rispettare tali princìpi. Io sono un politico, e dal mio punto di vista politico non c’è dubbio che l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina rappresenta un’enorme – me lo lasci dire – minaccia esistenziale per la nostra libertà e per i valori del nostro mondo libero.

Una minaccia per tutta l’Europa?

Per tutta la popolazione europea, per i paesi del Partenariato orientale, per i Balcani occidentali e anche oltre: direi per tutta la nostra civiltà. E mi sembra cristallino che la posizione della Polonia e dell’Ungheria in questa battaglia esistenziale è sostanzialmente diversa. La Polonia sta fermamente dalla parte della libertà e della democrazia, l’Ungheria invece mantiene una posizione nel migliore dei casi ambigua. Quindi, per tornare alla sua domanda: comprendo cosa intende quando parla di diversità di trattamento tra Ungheria e Polonia, ma per i fatti che ci sono dietro, come politici o come cittadini possiamo capirlo e accettarlo.

Così non si rischia di fare indurire la posizione “identitaria” del popolo ungherese?

Temo che questo sia molto probabile. Temo che l’euforia che regna in questi giorni a Budapest non permetta a Orbán di comprendere la realtà. Mi attendo che spinga l’Ungheria sempre più verso il bordo del tavolo.

Magari l’Europa dovrebbe mostrarsi più comprensiva verso l’Ungheria.

No, sarebbe l’inizio della fine, mi creda. Abbiamo perso il Regno Unito, ma stiamo guadagnando l’Ucraina e, credo, la maggioranza dei Balcani occidentali; Finlandia e Svezia vogliono unirsi alla Nato: tutto questo perché siamo attaccati ai nostri valori, amiamo la libertà e siamo pronti a soffrire per difenderla. Se cedessimo sui nostri princìpi, sulla determinazione e l’impegno a difendere i nostri valori, sarebbe l’inizio della fine dell’Unione Europea. L’Ungheria deve comprendere che non possiamo infrangere i nostri princìpi. Lo dico per esperienza.

A quale esperienza si riferisce?

Alla Slovacchia, il mio paese. Nella seconda metà degli anni Novanta, quando Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca furono invitate a negoziare l’ingresso nell’Unione Europea e nella Nato, noi fummo esclusi proprio a causa della mancata adesione ai princìpi e valori democratici. Per questo dico che non ci è permesso cedere a tale riguardo.

A proposito, la guerra in Ucraina come sta cambiando le relazioni tra i paesi del Gruppo di Visegrád?

Mi sembra evidente che il format dei Quattro di Visegrad, nell’ottica di questa guerra, sta mutando in 3+1: i Tre di Visegrád più uno. È quello che la Slovacchia ha sperimentato nella seconda metà degli anni Novanta. Ci sono foto dell’epoca che immortalano i primi ministri di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria seduti insieme, e accanto a loro una quarta sedia che però è vuota. Solo alla fine degli anni Novanta, nell’ottobre del 1998, quando vincemmo le elezioni e io visitai il summit Ue per la prima volta, riuscimmo ad affrontare la situazione. Orbán sta davvero spingendo l’Ucraina al limite, non solo del Gruppo di Visegrád, ma anche dell’Unione Europea. Uno sviluppo davvero spiacevole. Il presidente Zelensky ha ragione quando afferma che Orbán deve decidere da che parte vuole stare l’Ungheria. Il paese si trova davvero a un bivio.

E il ruolo dell’Unione Europea quale deve essere nella crisi russo-ucraina?

Vedo tre aree principali di intervento. Primo, l’Ue deve fornire all’Ucraina tutta l’assistenza possibile: aiuti umanitari, ma anche armi e sostegno finanziario. Dobbiamo prenderci cura dei rifugiati. Ce ne sono molti in Polonia e nella stessa Ungheria, in Slovacchia, nella Repubblica Ceca e in altri paesi: dobbiamo essere pronti ad affrontare un viaggio lungo. Molto lungo. Seconda area di intervento: le sanzioni. Dobbiamo intensificare il più possibile lo sforzo in questo ambito. Alludo, lo avrà capito, all’importazione di petrolio e gas. E so che servirà tempo. Leggevo proprio stamattina che il vostro primo ministro si è recato in Algeria per aumentare l’importazione di gas da quel paese e diminuire quella dalla Russia. Giustissimo. L’imperativo è adottare decisioni strategiche per mettere fine alla dipendenza energetica dalla Russia. Infine, terza area: dobbiamo prevenire quello che definirei un certo sfinimento sull’Ucraina. Un sentimento che si è diffuso lentamente in modo strisciante attraverso l’Europa negli anni, man mano che l’orgogliosa lotta degli ucraini diventava una notizia sempre meno rilevante. A volte ho la sensazione che ci siamo abituati all’idea che la Crimea appartenga ormai alla Russia, o che quelli nelle regioni di Donetsk e Luhansk siano conflitti congelati, come in alcune zone della Georgia. Tuttavia non ci si può stancare davanti alla violenza, dobbiamo prevenire che questo sfinimento impedisca di fornire all’Ucraina tutto il sostegno politico necessario.

Prima dell’invasione dell’Ucraina, quasi nessuno in Europa sembrava credere che sarebbe davvero scoppiata una guerra. Che lezione va tratta da quello che alcuni osservatori hanno chiamato “il ritorno della storia”?

Questo è un punto cruciale in una prospettiva di lungo termine. Dobbiamo realizzare che non ci sarà rispetto, autorità, sicurezza finché non avremo una nostra – nel senso di europea – forza di deterrenza. Non basta essere ricchi, se si è deboli. Dobbiamo creare e sviluppare una Difesa integrata europea, che operi a livello comunitario sotto un comando congiunto. In altre parole dobbiamo rafforzare sensibilmente il pilastro europeo della Nato. È una conditio sine qua non per cambiare la percezione dell’Europa come entità ricca ma debolissima. Ricorderà, credo, il viaggio di Josep Borrell a Mosca qualche mese fa, o il modo in cui altri leader, come Erdogan, si sono rivolti a Borrell o a Ursula von der Leyen. Il paradigma deve cambiare.

Avere una Difesa integrata permetterebbe anche all’Europa di assumere una posizione propria rispetto agli Stati Uniti? A Washington non sembrano particolarmente interessati ad arrivare a una fine del conflitto con la Russia.

Innanzitutto dovremmo stare attenti a non cadere nella trappola del “divide et impera”, il gioco portato avanti non solo dal Cremlino, ma anche dalla Cina con certi progetti monumentali come la Nuova Via della seta. Lo scopo è dividere la comunità occidentale, separare l’Europa dagli Stati Uniti. È una minaccia da evitare. Come detto, io sono per un cambiamento nella cultura strategica europea nel senso di uno sviluppo del nostro “hard power”, e ora aggiungo: facciamolo, ma non in contraddizione con gli Stati Uniti o con i nostri alleati nella Nato. Certo, le cose non filano sempre lisce in famiglia (ricorda gli anni di Trump?). Ma sarebbe un errore strategico aspirare a separarsi dagli Stati Uniti, specialmente in un quadro che vede la Russia diventare sempre più dipendente dalla Cina. Serve non solo un’Europa più forte, ma anche una forte Alleanza transatlantica. Il mio è un appello a rafforzare il pilastro europeo della Nato.

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