Destra o destre?

Qualche consiglio di lettura contro il (sinistro) pre-giudizio antipluralista (e antiliberale): i libri di Parlato e Ungari, Orsina, Cubeddu

Un comizio di Fratelli d’Italia a Genova, lo scorso 14 settembre 2022 (foto Ansa)

Quando si sente parlare di destra, nella pubblicistica ma non solo, si suole indicare un movimento più o meno compatto, univoco e, financo, tendente al monolitico. Come se una parola potesse racchiudere una galassia di significati. In realtà, le cose non stanno proprio così, perlomeno a leggere (e studiare) la storia politica (e quella delle idee che certamente è da essa influenzata ma, ancor di più, la influenza). È indubbio, certamente, che leggere e studiare costa fatica. Di più, quando entra in gioco un pregiudizio ideologico – in parte pure comprensibile se si vuole, dato il fenomeno fascista italiano – che vorrebbe tutto ciò che è a destra della sinistra e tendenzialmente anti-egualitario, lì sorgono i problemi.

Sì, perché se a destra – una certa destra – esiste un problema di nostalgia per un passato che tragicamente fu e che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto manchi una cultura liberale in questo Paese, a sinistra esiste un problema di vera approvazione del pluralismo. Raymond Aron nel suo importante Démocratie et totalitarisme (1965) – un libro che, dopo tanti anni, andrebbe ristampato e magari pure con un titolo meno asettico di Teoria dei regimi politici – notava come i regimi “costituzional-pluralistici”, ovvero le imperfette democrazie o poliarchie selettive, per dirla con Giovanni Sartori, si basino sul rispetto delle norme e sul compromesso. Questo poiché, in fondo, non si può negare che i valori di ciascuno sono, per egli stesso, principi giusti: e se così stanno le cose, il politeismo dei valori non può essere eliminato – se si vuole fare un altro bagno di realismo (liberale), si rivedano le pagine dedicate al tema da Max Weber e Isaiah Berlin. In sostanza, un sistema politicamente aperto non solo può, ma deve riconoscere la pluralità. A parole, nessuno la mette in discussione. I fatti, tuttavia, sembrerebbero dimostrare il contrario.

Mancanza di sensibilità liberale

E dunque, se esiste una sinistra al plurale, per semplificare, una massimalista e radicale, l’altra riformista e liberale (si vedano i lavori del compianto Luciano Pellicani), perché non possono esservi a destra? Non solo: perché, diciamo, può esistere una sinistra radicale e non una destra altrettanto radicale? Qui non siamo nel campo del “dover-essere” ma della fattualità politica: ognuno si sceglie i valori che preferisce, perché in una società aperta questo è segno di civiltà. Certamente, come ammoniva Karl Popper, non si può essere tollerante con gli intolleranti. Ma, ancora: perché si può essere tolleranti con la sinistra radicale e non con la destra radicale? A mancare, insomma, è quella sensibilità liberale che riconosce, con Aron, con Weber, con Berlin e così via, che i valori sono plurali e che, pertanto, solo un regime dispotico li opprime per unificare il panorama politico-culturale.

Il volume scritto a quattro mani da Giuseppe Parlato e Andrea Ungari, Le destre nell’Italia del secondo dopoguerra. Dal qualunquismo ad Alleanza nazionale (Rubbettino), tenta proprio di dar conto, senza pre-giudizi, ma nemmeno giudici preferenziali, come vuole la rigorosa ricerca storica (e non ideologica), di quel variegato panorama politico-culturale che nel corso del secondo Novecento vi è stato in Italia a destra: neo-, post-fascisti e monarchici, qualunquisti e liberali, trattando pure i periodici Il Borghese e Il Candido, rispettivamente fondati da Leo Longanesi e Giovanni Guareschi. La riflessione, scrivono i due storici, non può che essere complessa e articolata se si parte, per l’appunto, da quella che è stata una realtà caleidoscopica.

L’universo delle destre

Come scrive Giovanni Orsina in un altro volume da lui curato (e che serve da integrazione al libro di Parlato e Ungari, trattando pure diffusamente la Democrazia cristiana, la Lega Nord e Forza Italia, tra gli altri), Storia delle destre nell’Italia repubblicana (Rubbettino), si possono rintracciare alcuni punti comuni di quello che lo studioso chiama «l’universo delle destre»: l’anticomunismo, un’ostilità nei confronti di una certa interpretazione della Repubblica e dei partiti che l’hanno governata. Al contempo, però, pure divergenze irreconciliabili, a partire dal diverso giudizio nei confronti del Ventennio fascista.

A risultare chiara e lampante, tuttavia, è una profonda debolezza della cultura liberale. Se è vero, ad esempio, che il qualunquismo comprendeva in sé alcuni tratti tipicamente liberali, quali un forte scetticismo nei confronti dello Stato etico e pedagogo, l’enfasi posta sull’individualismo e sulla proprietà privata e, pertanto, l’anticollettivismo viscerale, è altrettanto vero, tuttavia, che mancava di una visione più elaborata di liberalismo (si legga l’introduzione di Orsina a La Folla di Guglielmo Giannini).

Il dna dell’Italia

In generale, Parlato e Ungari enfatizzano come in Italia la cultura liberale non abbia mai davvero attecchito e, dunque, non sia stata in grado di costruire una vera alternativa politica.

Nonostante i nomi anche di primissimo piano che è riuscita ad esprimere, basti pensare a Benedetto Croce, Luigi Einaudi e Bruno Leoni – ma si pensi a un gigante dell’Ottocento come Alessandro Manzoni, con il quale giungiamo addirittura nel campo di una visione che cerca di conciliare cattolicesimo e liberalismo: una prospettiva che la rivista Lisander, creata in collaborazione da Tempi e Istituto Bruno Leoni, cerca di far rivivere –, certamente la cultura liberale italiana paga lo scotto di essere stata percepita come una proposta aristocratica e anti-democratica (si legga, per una panoramica d’insieme, un altro recente volume: La cultura liberale in Italia di Raimondo Cubeddu, Rubbettino).

Ma, forse, il fatto che non sia mai stata popolare è dovuta al fatto che lo stesso dna della democrazia italiana è un altro: una democrazia il cui senso del compromesso e del politeismo dei valori è assai gracile per non dire inesistente tanto a destra quanto, e forse ancor di più, a sinistra. 

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