A forza di trattare il Covid come una guerra si rischia la disfatta

Disertori, imboscati, trincee. La lotta alla pandemia si nutre di metafore militari, ma la retorica bellica moltiplica gli insorti. E se i fatti smentiranno i proclami non basterà mettere all'indice i no vax

La task force dell’Esercito inviata in Basilicata per vaccinare a domicilio gli over 80 (foto Ansa)

Stiamo cercando di affrontare una pandemia dai contorni inediti o stiamo combattendo di nuovo la Prima Guerra Mondiale? A leggere i giornali e ad ascoltare certi dibattiti televisivi sembra decisamente più vera la seconda ipotesi.

L’ex segretario del Pd Nicola Zingaretti attacca il leghista Matteo Salvini perché quest’ultimo è contrario all’obbligo vaccinale antiCovid per i giovanissimi dichiarando: «Significherebbe perdere la battaglia contro il virus, come se in guerra si invitassero le persone a disertare. Colpisce che si definiscano patrioti degli esponenti politici che sono contro gli italiani e contro gli interessi del Paese». La cronaca di Roma di Repubblica del 14 luglio informa che, per quanto riguarda la vaccinazione antiCovid degli ultrasessantenni, «nel Lazio è caccia agli “imboscati”».

Soldati fucilati se non andavano alla guerra

A marzo era stato il virologo Fabrizio Pregliasco a definire in un’intervista a La7 “imboscati in guerra” i medici che non intendevano vaccinarsi con una dichiarazione a tinte forti: «Non vaccinarsi vuol dire essere imboscati, come in una guerra. A suo tempo i soldati venivano fucilati sul posto se non andavano alla guerra, era un meccanismo trucido e devastante. (…) Ci sono gli eroi, gente che si spende, e ci sono dei vigliacchi. Sono persone che in questo modo sperano di essere spostate in attività meno a rischio». Il ministro della salute Roberto Speranza è descritto da più di un anno a questa parte come «chiuso nella trincea della guerra al virus» (Corriere, Repubblica). La sanità territoriale è stata definita una «trincea travolta dal virus» (Il Fatto Quotidiano). Le multinazionali farmaceutiche sono state descritte dagli ambienti no-vax come «profittatori di guerra».

Disertori, imboscati, nemici della patria

Sin dai primi giorni della crisi le cronache, i dibattiti e le stesse comunicazioni istituzionali intorno al Covid 19 sono state pervase dalle metafore belliche; la diffusione del video di camion militari scoperti che trasportavano bare delle vittime è stata una scelta cosciente finalizzata a creare una condizione psicologica da stato d’assedio nella mente degli italiani. Con l’apparizione dei vaccini – e dei due partiti estremi, quello dei contrari alla vaccinazione e quello dei favorevoli all’obbligo universale – anziché diluirsi e scomparire la retorica bellica si è radicalizzata e si è generalizzata.

La scelta di affidare l’organizzazione dei centri vaccinali su tutto il territorio nazionale a un militare appartenente all’arma più amata dagli italiani – il generale degli alpini Francesco Figliuolo – è inappuntabile: i militari sono i più grandi esperti di logistica in circolazione (Amazon, la più grande azienda di commercio elettronico del mondo, è organizzata secondo il modello della logistica militare); ma è stata una scelta che, come si suol dire, prendeva due piccioni con una fava: confermava il messaggio “siamo in guerra” nel mentre che dava una risposta efficiente al problema organizzativo della vaccinazione di massa. Sta di fatto che oramai i botta e risposta fra esponenti politici ricordano quelli che contrapponevano socialisti e cattolici da una parte, liberali e nazionalisti interventisti dall’altra ai tempi della Grande Guerra: i secondi accusavano i primi di essere dei disertori, degli imboscati, dei nemici della patria, i primi ribattevano che a danneggiare la patria per torbidi motivi erano i secondi.

Covid, stato di guerra e confronto democratico

Per una società aperta (Karl Popper), dunque democratica e liberale, questa è un’autentica sciagura, a prescindere dai torti e dalle ragioni – sottolineato tre volte: a prescindere – di coloro che a queste metafore ricorrono. Perché lo stato di guerra rende impossibile il confronto democratico e la divulgazione scientifica, vettori dell’approssimazione alla verità possibile. In guerra gli ordini non si discutono, giusti o sbagliati che siano, perché discuterli equivarrebbe a delegittimare l’autorità della catena di comando dello Stato maggiore, e tale delegittimazione sarebbe peggio di qualunque errore tattico o disposizione crudele impartita.

Se l’obbedienza delle truppe ai comandanti diventa cosa incerta, questo è un enorme vantaggio offerto al nemico. Ma nella vita di una società democratica e liberale non dovrebbe essere così: proprio in occasione di una crisi dovrebbe vedersi la sua superiorità rispetto ai sistemi politici totalitari che, come quello della Cina comunista, proibiscono a chiunque di parlare senza l’autorizzazione del partito, e così facendo facilitano l’insorgere di un’epidemia e rendono difficoltosa la ricerca delle origini del problema e quindi l’individuazione delle soluzioni. Una società aperta e dotata di un minimo di epistemologia (discorso intorno alla verità della scienza) popperiana dovrebbe essere in grado di sopportare e alla fine trarre il meglio dal dibattito democratico intorno ad argomenti di contenuto scientifico: non si tratterebbe di dare la parola a chiunque, ma di sottomettere le affermazioni più diffuse al vaglio dell’osservazione e dell’esperienza, a partire da un presupposto che è insieme epistemologico e morale, e cioè che il sapere assoluto non esiste, bisogna essere sempre disposti a correggersi, le verità scientifiche sono provvisorie e falsificabili, sono necessari pragmatismo e senso pratico, occorre tenere a freno gli opposti fideismi, e occorre fare appello con toni di fiducia (non di ricatto) alla razionalità e al senso di responsabilità delle persone.

Retorica bellica e ribelli

La retorica bellica e la militarizzazione dei dibatti pubblici non contribuiscono a rendere più ragionevoli le persone, anzi: tendono a diventare più sospettose e alla fine più ribelli, perché notano l’enorme discrasia fra le notizie, gli articoli e le citazioni che circolano sui social e quelle che hanno cittadinanza nei media riferibili all’establishment. In guerra, si sa, la propaganda è più importante della verità: i fallimenti vanno nascosti o relativizzati, i successi vanno enfatizzati anche quando non sono reali. Osservando le vicende della Seconda Guerra mondiale, Simone Weil ha scritto che «occorre essere sempre disposti a cambiare di parte per seguire la giustizia, eterna fuggiasca dal campo dei vincitori». Quello che vale per la giustizia vale a maggior ragione per la verità, dal momento che non c’è giustizia che non sia fondata sulla verità.

Il gioco pericoloso delle élites

Perché le élites insistano con le metafore belliche in materia di lotta contro il Covid nonostante i pericoli che questo comporta per la democrazia e per la scienza, non è difficile da capire: la convinzione generalizzata che una guerra è in corso consolida la legittimità di chi detiene il potere e giustifica l’estensione di questo potere al di là di quanto prevede lo Stato di diritto, sospeso di fatto a motivo dell’emergenza. Ma è un gioco molto pericoloso: se i fatti dovessero smentire troppo schiettamente gli annunci di successi e le promesse di vittoria finale, a chi governa non basterà indicare all’ira popolare il nemico interno no-vax che ha remato contro. Quell’ira potrebbe rivoltarsi contro chi ha chiesto troppi sacrifici, ha preteso troppi atti di fede e alla fine non ha saputo realizzare quello che aveva promesso. Sarebbe stata preferibile, sin dall’inizio, una gestione della crisi più mite, più umile, più aperta al contributo di tutte le fasce della società. Forse siamo ancora in tempo.

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