Cosa significa a vent’anni, magari con un diploma, sentirsi dire: «Non servi»

Milano, marzo. Una di quelle mattine limpide e chiare, che segnano una acerba primavera. Cammino per strada, contenta di quest’aria di marzo. Una di quelle mattine in cui il mondo sembra nuovo, rifatto da capo. Alla fermata dell’autobus ci siamo solo io e un ragazzo sui vent’anni. Parla al cellulare, ad alta voce. Sta spiegando a qualcuno che cosa sa fare: «Ho aiutato in negozio mio padre, che è pasticciere… Ho fatto il barista, e me la cavo anche come cameriere…».

Il ragazzo parla in fretta, come se l’interlocutore gli avesse detto che non ha tempo da perdere. Una pausa, ora l’altro gli sta dicendo qualcosa. Il ragazzo, dopo un istante di silenzio: «Capisco, non sono quello che cerca… Ma ascolti, le lascio il mio cellulare, mi chiamo Davide, se avesse bisogno mi chiami…». E chiude e s’infila in tasca il cellulare, mogio. Poi arriva il suo autobus, e il ragazzo se ne va.

Io resto ad aspettare il mio, in questo sole in cui tutto sembra nuovo. Veramente, così mi pareva cinque minuti fa. Cosa mi ha preso? Non sono più contenta come prima, di questo marzo lucente. Qualcosa in me si è messo di traverso. Qualcosa di dolente. Quel ragazzo, ha l’età dei miei figli. Sì, forse è istinto materno: che pena mi fa, sentire uno di vent’anni domandare e quasi mendicare un lavoro con quell’ansia, elencare affannosamente ciò che sa fare, e poi tacere, mentre l’altro risponde che, no, grazie, non serve. Mi fa pena il modo in cui ha chinato la testa, a quel «no, grazie». Quante telefonate avrà fatto? E quanti no si è già sentito dire? E quanti in Italia come lui, della sua età, stamattina, rispondono ad annunci, bussano a porte che non si apriranno?

D’improvviso le cifre spaventose della disoccupazione giovanile per me hanno una faccia. Davide, so solo il suo nome. E in questo sussulto materno capisco non in teoria, ma nella carne, cosa deve essere, a vent’anni, magari con un diploma, sentirsi dire: non servi. A vent’anni, quando le forze sono piene, e la voglia di vivere trabocca, e c’è la speranza, magari, che con “lei” un giorno si possa vivere assieme, sposarsi, avere un figlio.

Ma: grazie, no, non abbiamo bisogno. Siamo al completo. Stiamo già mandando a casa gente. Non servi, ragazzo. Quello che hai studiato, e le tue mani, e le tue gambe svelte, non servono. E tua madre, a casa, che non aspetta che di sentirti dire che finalmente hai trovato. E tuo padre, che ti incrocia in corridoio e quasi di nascosto ti mette in mano i soldi per le sigarette e la benzina, imbarazzato. Noi, che materialmente ai figli abbiamo dato tutto, manchiamo nella cosa più importante: nel dirgli, venite, presto, abbiamo bisogno di voi.

Poi, arriva il mio autobus. E passano le ore, e le parole e le cose da fare si sovrappongono, ma quel ragazzo mi resta dentro come un retropensiero. La faccia che ha fatto, nel chiudere la telefonata. E allora mi rivolgo a un santo di cui ho personalmente testato l’efficacia, e prepotente gli dico: senti, so solo che si chiama Davide, ma tu di certo lo conosci. Devi pensarci tu. E guarda, aggiungo brusca, che è urgente.

Foto tram da Shutterstock

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