Cosa prevedono i contratti dell’utero in affitto (quanti Gammy mancano all’appello?)

«È sorprendente che qualcuno si sorprenda», scrive oggi su Avvenire Assuntina Morresi che prende spunto dalla vicenda del piccolo Gammy (nella foto a destra con la madre Pattaramon Chanbua) per raccontarci che cosa prevedano i contratti che regolano i rapporti tra committenti e gestanti dell’utero in affitto. Un mondo ben poco dorato, come sanno i lettori di tempi.it. E dove, soprattutto, ben poco è lasciato al caso, tutto predeterminato e stabilito in modo da avere il figlio su misura. E in cui, soprattutto, le donne gestanti – solitamente povere ragazze costrette dalla povertà a vendere la propria pancia – vengono ignobilmente sfruttate.

UN SEMPLICE INCUBATORE. «Ci sono differenti modalità di gravidanze a pagamento – spiega Morresi -: una è quella “tradizionale”, quando la donna che partorisce è la stessa che fornisce anche l’ovocita, e quindi condivide con il nascituro il patrimonio genetico. L’altra è “gestazionale”, se invece il bambino che nascerà è stato concepito con un ovocita che non appartiene alla donna che porta avanti la gravidanza e proviene dalla “madre intenzionale”, cioè quella che ha commissionato la gravidanza, o da una “donatrice” terza, sconosciuta». Modalità diverse ma accomunate da una costante: la «”donatrice” non è mai considerata, mentre l’eventuale marito della madre surrogata viene sempre incluso nell’accordo».
La madre surrogata è trattata alla stregua di un semplice incubatore. «Solitamente il padre genetico, o la coppia committente, obbligano la gestante a seguire le disposizioni di un medico di fiducia indicato dalla coppia stessa, e spesso è specificato che, nel caso in cui sia urgente una decisione medica durante la gravidanza e non sia stato possibile contattare la coppia, l’ultima parola spetta al medico di fiducia, e non alla madre surrogata».

E’ DOWN? C’E’ L’ABORTO. Per questo, racconta Morresi «la donna che affitta il proprio utero deve sottoporsi a tutti gli esami clinici proposti dal medico designato, e si specifica sempre che fra questi c’è l’amniocentesi e ogni altro esame ritenuto opportuno per verificare lo stato di salute del nascituro». Il motivo è di facile comprensione: se il figlio risulta essere handicappato, saranno i committenti a imporre l’aborto alla donna. Se la gestante si rifiuta, affari suoi. Si straccia il contratto e lei si tiene il bambino (oltre che restituire i soldi ricevuti). La medesima cosa può avvenire in caso di parto plurigemellare: «Nei contratti – scrive Morresi – è sempre previsto l’aborto selettivo, per evitare che nasca un numero di bambini superiore a quello pattuito, e solitamente valgono le stesse condizioni dell’aborto di feti malformati: se la donna incinta si rifiuta il contratto è nullo».

FUMO, ALCOL, PESO. Se l’handicap del bambino è, in qualche modo, riconducibile ai comportamenti della gestante è lei a rimetterci. «I contratti prevedono oltre all’obbligo degli esami clinici, rigorosi stili di vita: niente fumo, anche passivo, niente alcol, niente droghe o farmaci al di fuori della prescrizione medica, ma anche divieto di mettere su chili di troppo rispetto al peso considerato opportuno dal medico, divieto di bere più di una tazza di caffè al giorno, divieto di trasportare o cambiare la lettiera del gatto, divieto di fare uso di dolcificanti, divieto di stare in prossimità di qualunque sostanza spray, dalla lacca per capelli ai pesticidi, e via dicendo». Ovviamente, fa notare l’articolista «in caso di nato malformato, non è difficile trovare un pretesto per darne la responsabilità alla madre surrogata».

LO RIANIMIAMO? DIPENDE. Niente è lasciato al caso nei contratti. Alcuni di questi «prevedono espressamente che, se al momento della nascita il bambino ha bisogno di supporti vitali o di essere rianimato, la decisione in merito è solo del padre genetico (o della coppia committente) e non della donna che lo ha partorito. Se questa non concorda, e interviene diversamente per cercare di sostenere la vita del neonato, il contratto si considera interrotto e sarà lei ad assumersi da quel momento in poi la responsabilità del piccolo sotto tutti i punti di vista, a partire da quello economico, ovviamente». In alcuni casi, nei contratti appaiono clausole su fumo, alcol, obesità, persino su «forti convinzioni religiose: in quest’ultimo caso, infatti, potrebbe essere “prevenuta dall’accettare certe procedure mediche come l’interruzione di gravidanza o le trasfusioni”».

GLI ALTRI GAMMY. Conclude Morresi: «Il piccolo Gammy è nato perché la donna che lo portava in grembo a pagamento ha rinunciato ad abortire e ha avuto il coraggio e la possibilità di far conoscere la sua storia. Non sapremo mai quanti come lui sono stati abortiti per contratto, così come non sapremo mai quanti Gammy mancano all’appello perché abortiti nel ricco mondo occidentale, senza alcun bisogno di obblighi contrattuali: la chiamano libertà di scelta, ma non è poi una storia così diversa da quella che ci è arrivata dalla Thailandia. È sorprendente che qualcuno ancora si sorprenda».

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