«La conseguenza della parità di genere sul lavoro? Più figli»

Così il welfare aziendale orientato a favorire la natalità può aiutare a invertire la rotta del declino demografico. Il caso Danone e la necessità di un'alleanza tra Stato e aziende. Chiacchierata oltre gli slogan e la retorica con Sonia Malaspina, autrice di "Il congedo originale"

Passeggini in piazza del Campidoglio, a Roma, per una protesta del 2014 contro i costi troppo alti degli asili nido (foto Ansa)

«Donne, il lavoro diseguale» titolava in prima pagina Repubblica un mese fa, anticipando un rapporto dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi della politiche pubbliche) che mette in luce come in Italia «anche con gli incentivi l’occupazione femminile non supera il 40 per cento».

Il tema è legato a doppio filo a quello della natalità se è vero che – come ha detto lo stesso presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda – «la diminuzione dei tassi di natalità, se pure influenzata da cambiamenti nel sistema dei valori, è sostanzialmente legata alla condizione femminile e a problemi di reddito. La difficile conciliazione tra gestione della maternità e impegni lavorativi da un lato e il costo della gestione della maternità, più quello dovuto all’assenza di adeguati servizi per l’infanzia e alle spese di mantenimento dei figli sono all’origine del più basso tasso di natalità».

«Il raggiungimento della parità di genere nella gestione dei carichi familiari e nelle condizioni lavorative e retributive, la flessibilità (se non anche la riduzione) degli orari di lavoro, la diminuzione dei costi per la maternità e per il mantenimento dei figli sono direzioni da percorrere per rendere possibile un aumento dei tassi di natalità». Ma la parità di genere, e non si tratta di retorica ma di numeri, è ben lungi dall’essere raggiunta «sia nei percorsi formativi che nei percorsi lavorativi».

Mettere la cura al centro del dibattito su lavoro e natalità

Di fronte a questi dati ci si può lamentare, accusare il patriarcato o il governo, lanciare messaggi che rischiano di essere interpretati nel modo sbagliato (vedasi l’ultimo spot della Tim proprio sulla parità nel lavoro, dove l’avere figli è messo sullo stesso piano degli abusi subiti sul posto di lavoro tra le cause che impediscono alle donne una vera parità con gli uomini), oppure si può provare a ribaltare il problema mettendo al centro del dibattito la parola “cura”.

«La relazione tra lavoro retribuito e lavoro di cura non retribuito rappresenta, ancora oggi, un elemento che connota in maniera critica la presenza delle donne nel mercato del lavoro», si legge nell’introduzione del rapporto Inapp “Tra produzione e riproduzione: l’onere del lavoro non retribuito sulle disparità di genere”. «L’asimmetria nei carichi di cura familiare e domestica, che vede le donne come principali protagoniste, si riverbera nelle modalità di partecipazione al lavoro femminile in tutta l’Unione europea, andando ad incidere sull’aumento dei divari di genere strutturali e riducendo le possibilità di miglioramento nell’ottica della parità di genere».

Malaspina: «Dare valore all’esperienza della cura»

Tempi ne ha parlato con Sonia Malaspina, direttrice risorse umane Italia e Grecia di Danone, che ha scritto con la collega Marialaura Agosta, inclusive diversity manager in Danone, un libro importante per chiunque voglia parlare di genitorialità e welfare aziendale. Si intitola Il congedo originale – Come trasformare le organizzazioni con il potere della cura, e risponde alla domanda “perché le aziende temono la maternità?” ribaltando l’approccio solito: «Forse la domanda da porsi non dovrebbe essere “come facciamo a risolvere il problema della maternità in azienda?”, bensì “quanto valore può portare la genitorialità delle persone in azienda?”.

«Il rapporto Inapp», dice Malaspina a Tempi, «fa l’esatta fotografia del lavoro di cura nel mondo informale e nel mondo formale». Con “informale” si intende ad esempio il lavoro dei genitori, non misurabile in termini di pil né quantificabile in numeri e percentuali, a differenza di quello “formale” di cui nel rapporto emergono carenze ed emergenze, ad esempio la carenza di asili nido, soprattutto al sud. «Dal quel rapporto si capisce che se non facciamo qualcosa l’emergenza denatalità si aggraverà: il mondo economico oggi non dà valore all’esperienza della cura, sia essa non formale o formale – penso ai disservizi legati alla scuola, dalla mancanza di asili a un sistema scolastico che prevede tre mesi di vacanze di fila…».

Se un’azienda valorizza la cura, la natalità cresce

È un sistema da ripensare, spiega Malaspina: «Noi pretendiamo persone super performanti e motivate “gratis”. Ma tu hai persone motivate e performanti se ti occupi delle loro esigenze famigliari». Sta qui la grande divisione tra mondo economico e mondo reale. «Dobbiamo fare qualcosa per valorizzare l’economia di cura, investire più risorse private e pubbliche se vogliamo una società performante. La cura formale e informale dà benessere sociale». Non sono slogan retorici, spiega. «Io lo vedo nella mia azienda, dove c’è meno conflittualità che altrove, e dove dal 2011 abbiamo una policy che aiuta i cosiddetti caregiver, siano essi persone che curano anziani o bambini. La conseguenza è un maggior senso di solidarietà tra le persone, e molto meno stress: nella mia azienda non ho casi di burnout».

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Valorizzare la cura ha un riscontro sociale e conviene all’imprenditore: là dove sono in vigore da qualche anno policy di questo tipo, dice Malaspina, ci sono livelli di assenteismo bassi, persone motivate, e cresce la capacità di attrarre e tenere i talenti, che si sentono più “coccolati” che altrove. In sintesi e con un gioco di parole, avere cura dei dipendenti che hanno cura di altri vuol dire meno costi per l’azienda.

Ma che c’entra la disparità di genere? «A livello sociale, il malessere di tante persone oggi è anche dovuto al fatto che non investiamo nella cura e nella ripartizione dei compiti di cura tra uomo e donna». Si può fare con una politica di welfare aziendale ad hoc, ma serve anche l’intervento del legislatore con politiche che mettano al centro la natalità. «In questo momento pretendiamo la natalità e la performance aziendale ma non spendiamo in questo senso. Io in Danone so esattamente quanto ho speso per le mie politiche di cura: il saldo costi-benefici è positivo».

Un bambino gioca da solo in un parco di Roma (foto Ansa)

Combattere la disparità di genere conviene

Si parla molto di disparità di genere nel lavoro, ma in che senso combatterla favorirebbe la natalità? «Se chi si occupa dei figli è solo la mamma ci sarà sempre uno sbilanciamento», spiega la responsabile risorse umane di Danone «in una economia con dipendenti sottopagati e in ruoli “basic” conviene sempre assumere uomini. Se tu invece riequilibri i compiti di cura tra uomo e donna, l’assenza maggiore la farà sempre la donna, che fisiologicamente si occupa di più dei figli, ma tutto il compito di cura non sarà solo sulle sue spalle».

Da cosa nasce la disparità economica? Da aziende che assumono una donna e le danno uno stipendio più basso perché tanto sanno che dai 25 ai 45 anni potrebbe andare in maternità da un momento all’altro, per questo ha anche meno aumenti di stipendio e il divario salariale si trascina a livello pensionistico. «Una maggiore ripartizione della cura tra uomo e donna, ma in generale una maggiore enfatizzazione della cura in sé, che deve essere supportatata dal mondo economico, fa ripartire la natalità». Ancora, non è uno slogan, «l’ho visto io nella mia azienda dove la natalità in dieci anni è aumentata dell’8 per cento: ma questo è il risultato di anni di investimenti economici, organizzativi, culturali, psicoaffettivi…». Non c’è una ricetta, spiega Malaspina, serve organizzare un sistema organico di interventi diversi.

Welfare aziendale e natalità

Per decenni, però, questo non è quasi mai stato un tema all’ordine del giorno per le aziende. Danone è stata pioniera in Italia per quel che riguarda le policy orientate al welfare e alla cura: «Mi sono accorta che bisognava fare qualcosa quando, già responsabile risorse umane e unica donna nel comitato esecutivo di un’altra azienda in cui lavoravo prima di Danone, sono andata in maternità e sono rientrata al lavoro: è stata dura, tutto attorno a me mi diceva di mollare. Io non l’ho fatto anche grazie all’aiuto della mia famiglia, ma tante donne in una situazione come la mia scelgono di abbandonare il lavoro: i dati della bassa occupazione femminile, soprattutto al Sud, parlano chiaro».

Quando Malaspina entra in Mellin, nel 2011, «già vedevo la discesa del numero dei nati in Italia: con quei dati sotto gli occhi, e anche per ovvi motivi di business, dato che la mia azienda produceva prodotti per l’infanzia, ho pensato che almeno noi potevamo fare qualcosa». I numeri, oltre dieci anni dopo, le danno ragione.

«Chi paga le pensioni?»

Nel frattempo la coscienza dell’emergenza natalità insieme alla constatazione del fatto che le donne che fanno figli vengono discriminate sul posto di lavoro, si sono fatte strada in tante imprese italiane (Tempi ci ha fatto un convegno, e ne ha parlato qui, qui e qui, ad esempio). «Per anni non ci si è posti il problema, si è vissuto spensierati e ora vediamo che il sistema non si regge più: chi paga le pensioni? La base di chi lavora si restringe, mentre si allunga la vita… Ogni misura che mettiamo in campo darà frutti tra anni». Le aziende hanno un grande vantaggio nell’ottica di pensare a politiche per favorire la natalità: sono campo privilegiato, spiega Malaspina, «una persona che cerca lavoro si chiede se l’azienda che lo assumerà lo lascerà a casa se farà figli o no, banalmente».

Chi introduce misure per la genitorialità

Anche le grandi aziende cominciano a introdurre misure per la genitorialità: Barilla e Nestlè, ad esempio, hanno introdotto la paternità retribuita di tre mesi. Ma non tutti possono permetterselo, spiega Malaspina: «Un’azienda con 5.000 dipendenti può pagare cento paternità e ridistribuire il lavoro tra gli altri, una piccola non ce la fa». Lì deve intervenire lo Stato, con incentivi e leggi ad hoc.

Il dato di partenza, che tutte le ricerche confermano, è che «c’è un delta tra il desiderato delle famiglie italiane e la realtà: la maggior parte delle coppie vorrebbe almeno due figli, ma la media è 1,2 nati per donna. Nella mia azienda le persone sono messe in una condizione che fa sì che quello che desiderano, avere dei figli, e non solo uno, sia possibile. Perché? Le donne sanno che sono accolte, che c’è un supporto di welfare che le accompagna durante tutto l’anno – spese di cura, baby sitter, scuola sono supportate dall’azienda con 2.500 euro netti più la possibilità di convertire i 2.000 euro di premio produttività in bonus con cui pagare rette, gite, campus estivi, asili nido…».

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E l’esperienza maturata in questi anni «mi incoraggia a parlare alle istituzioni e dire che qualcosa si può fare: con una serie di misure si può davvero incidere e invertire il trend negativo della natalità, che non è solo italiano».

Che cosa si può fare subito per la natalità?

Chiediamo a Sonia Malaspina se c’è qualcosa che si può fare subito, a costo zero, per aiutare le ancora insufficienti ma significative misure messe in campo dal governo: «Per il 2024 Danone si impegna a chiedere la certificazione per la parità di genere ai propri fornitori dando punti di premialità nelle gare a chi la presenta. Questo deve stimolare i miei fornitori, che possono influenzare la politica – la Regione Lombardia ha stanziato 10 milioni a supporto di chi vuole essere in regola con questa certificazione. Non è un’impresa impossibile, serve rispettare quattro requisiti, tra cui favorire la genitorialità. Lo Stato può fare lo stesso, a costo zero, inserendo questo meccanismo in tutti i bandi pubblici. Se tutte le aziende si muovono con questa spinta, avremo una maggiore natalità».

La parità di genere è spesso agitata come rivendicazione fine a se stessa, bandierina ideologica da piantare su tutto. «Nessuna retorica», conclude Malaspina, «la conseguenza della parità di genere è la natalità. La mia è scelta imprenditoriale: se uno non crede nel valore delle donne può assumere solo uomini. Ma le competenze femminili servono, le donne danno un contributo importante, da noi fanno la differenza nella crescita dell’azienda. Non è che le impiego perché sono buona. Le donne danno un contributo importante se vengono messe nella condizione di poterlo fare. Altrimenti sono rassegnate, impaurite di andare in maternità, arrabbiate perché non possono avere neppure un part time per occuparsi dei figli… La competitività passa da questa inclusione delle donne nel mondo del lavoro, l’Italia si deve porre il problema non ideologicamente, ma come sostegno al sistema».

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