Cina. Compie 100 anni Li Rui, segretario di Mao: «La vita umana per lui non aveva valore»

La vita di Li Rui è una testimonianza vivente della storia della Cina. Fiero comunista, ha passato 20 anni in carcere per aver criticato Mao e il partito: «Il nostro più grande problema è la mancanza di democrazia»

«Il più grande problema della Cina è che ancora non ha la democrazia». Detta così, può sembrare un’affermazione scontata ma se a parlare è Li Rui è tutta un’altra storia. Ieri l’ex segretario personale di Mao Zedong ha compiuto 100 anni e nonostante sia stato cacciato dal partito comunista, più volte incarcerato e perseguitato dal regime, ha rilasciato tranquillamente un’intervista “sensibile” alla Bbc dalla sua casa nel quartiere dove abitano tutti gli importanti comunisti in pensione. Li critica il partito comunista ma è un comunista, non è un dissidente. È ovviamente una contraddizione e di conseguenza rispecchia perfettamente la vita avventurosa di Li Rui, testimone vivente della tormentata storia contemporanea cinese.

L’ULTIMO IMPERATORE. Nato nel 1917 nell’Hubei, quando ancora nella Città proibita viveva l’ultimo imperatore Pu Yi (ma non poteva uscire, la Repubblica di Sun Yat-sen era nata nel 1912), Li ha sempre avuto un sogno: diventare comunista e unirsi al partito nato nel 1921. «Quando mia madre seppe che volevo unirmi ai comunisti, mi disse che erano brava gente ma anche di stare attento: “Rischi di farti tagliare la testa”», racconta lucidissimo all’inviata della Bbc, dopo averla aspramente criticata per la sua «scarsa preparazione per questa intervista».

CONTRO I GIAPPONESI. Li riuscì a tenersi la testa sulle spalle e dopo aver militato nel movimento anti-giapponese, essersi fatto incarcerare dal Kuomintang di Chiang Kai-shek per aver diffuso testi marxisti, riuscì a raggiungere le forze di Mao a Yanan, roccaforte dei comunisti durante la guerra civile. Seguì il grande timoniere fino alla vittoria nel 1949, quando nacque la Repubblica popolare, e divenne suo segretario personale, apprezzato soprattutto per la capacità di dire ciò che pensava.

«MAO ERA TERRIBILE». Questa qualità fu presto considerata un difetto da «controrivoluzionario» quando, dopo la folle tragedia del Grande balzo in avanti maoista (che rovinò l’economia del paese causando circa 30-40 milioni di morti), Li ne criticò l’evidente fallimento, fu incarcerato in un gulag e poi finì in isolamento per 18 anni nella prigione di Qincheng. Parlò così di Mao in un’intervista circa 40 anni dopo quell’esperienza: «Il suo modo di pensare e governare era terribile. Per lui la vita umana non aveva alcun valore. La morte degli altri non significava niente per lui». E ancora: «Già nel 1958 Mao aveva cominciato a dire che il culto della sua persona era necessario. Ma con l’avvento della Rivoluzione culturale, divenne un culto malvagio. I suoi metodi erano perfino peggiori degli imperatori dei tempi antichi».

PIAZZA TIENANMEN. Li è sopravvissuto anche alla prigione grazie a «esercizi fisici e respiratori che mi hanno permesso di non perdere la sanità mentale». La figlia Li Nanyang, che negli anni della sua disgrazia fu costretta a denunciarlo come un «nemico del popolo», riuscì a farlo riabilitare dopo la morte di Mao. Uscito di prigione nel 1979, nel 1982 fu eletto nel Comitato centrale del partito comunista. Ma durò poco. Quando nel 1989 scoppiò la protesta di piazza Tienanmen, Li prese carta e penne e scrisse ai leader del partito: «Gli chiesi di non dichiarare la legge marziale e di non fare del male agli studenti. Ogni volta che il partito comunista si è scontrato con l’umanità, ho sempre parteggiato per quest’ultima».

«NON HO FATTO ALCUN ERRORE». Ovviamente non glielo perdonarono. «Gli ufficiali del partito vennero da me», ricorda, «mi minacciarono e mi dissero che dovevo ritrattare tutto e fare una lettera di autocritica. Altrimenti sarei stato espulso dal partito». Chiunque, conoscendo i metodi non proprio delicato del regime avrebbe firmato, ma lui no: «Ho rifiutato e gli ho risposto: “Io non ho fatto alcun errore”». Venne cacciato dal partito e da allora la Cina non è cambiata granché: «Il nostro più grande problema è la mancanza di democrazia. Oggi non si può criticare Mao Zedong, perché è lui che ha costruito il partito. In Cina funziona così. Siete voi stranieri che non lo capite».

MORIRE COMUNISTA. Li Rui ha scritto libri e saggi, tutti «altamente sensibili» e tutti pubblicati a Hong Kong, ma nessuno in Cina. Perché? «Lo sanno tutti perché. Non sarò certo io a dirlo». Ieri Li ha compiuto 100 anni e nonostante tutto è rimasto un comunista. Riconosce la politica ufficiale secondo cui Mao ha fatto il 30 per cento delle cose sbagliati e il 70 per cento delle cose giuste. I cinesi, insiste, sono anche più liberi e ricchi di un tempo: «Se avessi parlato così qualche anno fa, mi avrebbero ucciso». Li però resterà sempre un ribelle: prima contro l’impero, poi contro gli invasori giapponesi e ora contro il partito. «Chi mi conosce e mi vuole bene continua a dirmi che devo smettere di parlare e criticare il partito. Mi dicono che ormai dovrei accontentarmi di andare avanti a vivere». Ride. «Non ci penso neanche».

@LeoneGrotti

Foto Tienanmen Ansa

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