«Facevamo anche giacche italiane». I racconti delle «schiave» rinchiuse nel campo di lavoro di Masanjia

«Schiave», «animali», «morti viventi», tutto tranne che donne: con queste parole Liu Hua (nella foto a fianco), 51 anni, originaria di Zhangliangbao, un villaggio della provincia di Liaoning, nel nord-ovest della Cina, descrive il modo in cui vengono trattate le prigioniere nel campo di rieducazione attraverso il lavoro di Masanjia. La drammatica testimonianza di anni di torture, abusi e lavoro massacrante è contenuta nel film Sopra le teste dei fantasmi. Le donne del campo di lavoro di Masanjia, realizzato dal regista Du Bin e premiato dal pubblico a Taiwan e Hong Kong l’1 maggio 2013. Tempi.it è entrato in possesso del documentario per cui il regista Du Bin, insieme ad altri lavori, è sparito il 31 maggio, rilasciato su cauzione dalle autorità cinesi l’8 luglio e attualmente sotto processo per «aver creato disturbi». Rischia dieci anni di carcere.

MASANJIA. Liu Hua ha passato quasi due anni a Masanjia (a destra, l’entrata del campo),uno dei 300 «campi di rieducazione attraverso il lavoro» attivi in Cina, dove chiunque può essere rinchiuso fino a quattro anni senza processo. Dopo essere stata accusata di “danneggiare la sicurezza nazionale o opporsi al partito e al socialismo” per aver portato delle petizioni al governo centrale, è stata arrestata «per sbaglio» e rinchiusa in una “prigione nera” mentre cercava di portare al governo centrale una petizione. La polizia ha detto a Hua: «Abbiamo sbagliato ad arrestarti ma adesso non possiamo perdere la faccia. Quindi confessa le tue colpe lo stesso o ti mandiamo oggi stesso in un campo di lavoro». Lei ha rifiutato perché «sarei morta piuttosto che dargli ragione», come spiega la donna all’inizio del film-documentario, e così il 12 gennaio 2011 è stata portata a Masanjia.

IL DIARIO DI HUA. Carta e penna sono introvabili nel campo, «le autorità non vogliono che nessuno possa portare fuori dal campo una testimonianza di quanto avviene all’interno», ma Hua è riuscita a procurarsi una piccola matita e a scrivere giorno per giorno «tutte le atrocità che avvenivano all’interno per condividere tutto questo male con ogni persona in Cina e nel mondo». Il film è il resoconto di quello che Hua ha visto e trascritto minuziosamente.

GIORNATA TIPO. Nel braccio del campo doveva è stata rinchiusa Hua vivono 470 prigioniere in tutto: qualche ladro, un centinaio di prostitute, membri della setta religiosa Falun Gong  invisa al regime e portatori di petizioni. Secondo le regole del ministero della Giustizia, i prigionieri dovrebbero lavorare tre ore al giorno e studiare altre tre per essere rieducati, con i week-end liberi, il tutto sotto adeguato compenso. La realtà è un’altra: «Sveglia alle 4.55 – racconta Liu Hua – colazione alle sei, inizio del lavoro 6.30. Si sgobba ininterrottamente fino alle 5 di pomeriggio, salvo una pausa di un’ora tra le 11.30 e le 12.30. La sera vengono distribuiti tra le donne altri lavori e chi si rende colpevole di qualunque cosa subisce un’ora di punizioni corporali».

LAVORO MASSACRANTE. A Masanjia le donne «trattate come animali» producono capi di abbigliamento: «Io lavoravo in quattro postazioni contemporaneamente, dovevo realizzare tra i 130 e i 150 capi al giorno. Imbottivamo con piume d’oca giacche e le cucivamo. Chi lavora lento viene picchiato, chi si lamenta o protesta viene picchiato, chi non finisce il suo lavoro viene picchiato e non può cenare». Nel campo si compra tutto, «chi non ha i soldi non può usare neanche la carta igienica o avere gli assorbenti per le mestruazioni». Il cibo, che consiste in zuppette ci verdure, speso andate a male, non basta mai e per procurarsi altro cibo bisogna comprarlo e mangiarlo di nascosto «mentre si va a cagare nel bagno». Per il troppo lavoro, nel giugno 2012, Liu Hua non riesce più neanche a tenere in mano la ciotola: «I tendini delle mie mani erano del tutto usurati dal troppo lavoro. Siccome mi sono messa a protestare, mi hanno anche aumentato il carico: dovevo lavorare a 220 giacche ogni giorno, vuol dire che per una giacca avevo solo tre minuti, una persona non può neanche immaginare che cosa significa. È un ritmo disumano».

AZIENDE ITALIANE. Il lavoro in realtà non viene pagato alle detenute ed è una vera miniera d’oro per la Cina, che guadagna fino a 100 milioni di yuan all’anno (circa 12 milioni di euro). Il campo di lavoro non produce capi di abbigliamento solo per la Cina, ma anche per aziende straniere che comprendono, denuncia Hua, aziende italiane: «Noi facevamo uniformi per la polizia, per alcune aziende cinesi e altre straniere, alcune italiane, altre della Corea del Sud. Da febbraio ad aprile 2012, abbiamo realizzato 36 mila magliette per una compagnia sudcoreana. Dal primo giugno al 24 agosto 2011 abbiamo fatto 50 mila giacche per gli italiani, le imbottivamo di piume d’oca e poliestere senza protezioni».

PESTAGGI. Chi non lavora o si lamenta per le condizioni disumane viene punito e torturato. Liu Hua racconta alcuni casi. Come quello di Hu Xiufen, donna di Shenyang, entrata nel campo nel 2007, che per essersi rifiutata di pulire le scarpe a un capo brigata è stata pestata, messa in isolamento, appesa al soffitto con le manette a “T” e tenuta così sospesa per sette giorni e sette notti. «L’hanno pestata 18 volte in un anno solo».

«STRISCIAVA COME UN CANE». C’è anche Gao Huimin, del Benxi, «pestata fino a quando non è rimasta disabile. Non poteva più camminare, per questo si muoveva strisciando o andando a quattro zampe come un cane. Nonostante questo, doveva comunque realizzare anche 200 giacche al giorno». Liu Xia (foto a fianco), insegnante di 57 anni, è stata imprigionata perché membro della setta Falun Gong. «Lei racconta di essere stata lasciata senza carta igienica per sei mesi, di essere stata rinchiusa in una stanza senza finestre e di aver dovuto sostenere corse avvolta in coperte d’estate sotto il sole e sessioni al freddo d’inverno in cui doveva restare immobile accovacciata. Durante il periodo delle mestruazioni, invece, la lasciavano legata in piedi, nuda e ammanettata, per farle scorrere il flusso di sangue giù per le gambe».

«STUPRATA IN GRUPPO». Wang Jinfeng, anche lei membro del Falun Gong di 47 anni, «anche se ne dimostrava 60», «è stata picchiata in faccia, le sono saltati tutti i denti tranne i due davanti che quando parlava ballavano avanti e indietro. Come se dovessero cadere da un momento all’altro». Come racconta lei stessa in una lettera mostrata nel documentario, «prima di entrare a Masanjia mi hanno mandata in un campo di uomini, dove sono stata stuprata in massa. Siccome nel mio campo continuavo a protestare per le ingiustizie subite, mi hanno torturata infilandomi un bastone elettrico nella vagina e dando lo scossa, per farmi del male mi infilavano dentro del peperoncino o anche tre spazzolini da denti legati insieme e li facevano roteare».

RACCONTO DEI GIORNALI. Tutto questo non avviene all’oscuro della collettività ma con l’avallo dei giornali, raramente liberi in Cina, che ogni primo maggio entravano nel campo «e ci fotografavano mentre i capi brigata ci facevano marciare ordinate. Per l’occasione le stanze del campo di lavoro venivano tirate a lucido così che i giornalisti, una volta usciti, scrivevano per informare tutta la Cina come venivamo rieducate bene per la società a Masanjia. Ma era solo propaganda, pubblicità del regime comunista: noi eravamo solo animali, merce di scambio, strumenti per fare soldi».

SUICIDIO COME SOLUZIONE. Molti, non potendo reggere le torture e il lavoro massacrante, «cercavano il suicidio. Ma non riuscirci era rischioso: se ti fermavano in tempo, ti aumentavano la pena». Le violazioni della legge si verificano anche per quanto riguardo le visite dei familiari, che devono durare almeno mezz’ora e senza la supervisione dei secondini. Invece a Masanjia chi riceveva visite durante l’orario di lavoro, non veniva lasciato andare dai parenti, «o al massimo per cinque minuti. Se non completi i tuoi assegnamenti del giorno, cacciano via i tuoi familiari, che a volte hanno fatto anche migliaia di chilometri per venirti a trovare da tutta la Cina. Mio figlio – continua Liu Hua – è venuto tre volte e mai me l’hanno fatto vedere».

FANTASMI VIVENTI. Questa è «l’inferno quotidiano» raccontato dal coraggioso regista Du Bin (nella foto) nel campo di Masanjia, costruito sopra un cimitero, dove la polizia accoglie le detenute con queste parole: «Sotto il terreno ci sono i fantasmi e sopra le donne nel campo». Ma, conclude Liu Hua, «noi donne dicevamo sempre: “Quei fantasmi sotterranei vivono sulla Terra, mentre noi sopra viviamo in un Inferno”».

@LeoneGrotti

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