Brexit. Così ci rimettiamo tutti

Mario Mauro e Daniele Capezzone spiegano gli errori di Londra e Theresa May, perché non ci sarà un referendum bis («sarebbe antidemocratico») e perché l'Ue ha perso un'occasione d'oro «per cambiare e rinnovarsi»

Il 29 marzo la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea e se ancora oggi nessuno ha la minima idea di come e che cosa succederà, significa che di errori, prima e dopo il 23 giugno 2016, data del fatidico referendum che ha visto la vittoria del “Leave”, ne sono stati fatti molti. Sia da parte di Londra che di Bruxelles. L’accordo raggiunto il 25 novembre 2018 tra la delegazione inglese del premier Theresa May e quella europea dopo oltre un anno di trattative è infatti stata clamorosamente bocciata martedì dal Parlamento britannico con oltre 200 voti di scarto. May ha subìto una «umiliazione storica» (Guardian, Telegraph, Times, Bbc) e ora rimangono solo tre strade: una dilazione dei tempi di trattativa per rimandare la data dell’uscita effettiva dall’Ue, che va richiesta da Westminster e approvata da Bruxelles, un secondo e poco democratico referendum nella speranza che dia un altro risultato rispetto a quello del 2016 oppure il temuto “No Deal”, la Brexit senza alcun tipo di accordo, ovvero il caos.

«LONDRA E UE HANNO SBAGLIATO»

«Personalmente continuo a pensare che la Brexit sia stata un’ottima cosa e lo sia anche adesso. Purtroppo il governo di Theresa May, che ieri è sopravvissuto a un voto di sfiducia, ha lavorato non per cogliere l’opportunità, ma solo per limitare i danni e quindi secondo me il Parlamento inglese ha fatto bene a bocciare l’accordo», dichiara a tempi.it Daniele Capezzone, che ha firmato insieme a Federico Punzi un libro molto informato sul tema, Brexit. La sfida, del quale uscirà a breve una versione aggiornata in formato e-book. «Anche l’Ue ha compiuto errori: innanzitutto avrebbe dovuto lavorare prima del referendum del 2016 per tenere la Gran Bretagna dentro l’Unione e non l’ha fatto. Poi ha mantenuto un atteggiamento esclusivamente punitivo e negativo. Oggi ne raccoglie i frutti e ha poco da festeggiare».

Secondo un rapporto della Banca di Inghilterra, se Londra uscirà dall’Ue senza accordo (No Deal) il Pil calerà dell’8 per cento nel giro di un anno e del 10,5 per cento nei cinque anni successivi. Il prezzo delle case crollerebbe del 30 per cento, la sterlina del 25 per cento e l’inflazione salirebbe del 6,5 per cento. Il tasso di disoccupazione, inoltre, passerebbe dall’attuale 4,1 al 7,5 per cento. Anche l’Ue ne pagherebbe le conseguenze ed è per questo che nessuno desidera questa soluzione.

IL PROBLEMA DEL BACKSTOP

Il nodo principale dell’accordo che scontenta tutti i parlamentari inglesi, sia coloro che vogliono una Brexit “soft” sia coloro che la vogliono “hard”, riguarda il cosiddetto “Backstop”. Dall’accordo del Venerdì Santo del 1998, che ha posto fine a decenni di scontri, non ci sono più barriere fisiche né un confine militarizzato tra Irlanda e Irlanda del Nord. Trovandosi però l’Irlanda nell’Ue, l’uscita del Regno Unito dall’unione doganale e dal mercato unico comporterebbe il ritorno di una frontiera fisica tra i due paesi. Per questo si è deciso di ricorrere a un “Backstop”, una clausola di salvaguardia. Essa prevede che, anche se durante il periodo di transizione (che in teoria durerà dal 29 marzo 2019 alla fine del 2020) non si trovasse una soluzione per quanto riguarda la circolazione delle merci tra Gran Bretagna e Ue, non tornerà un confine rigido tra Irlanda e Irlanda del Nord. Di conseguenza, l’Irlanda del Nord rimarrà nel mercato comune europeo e nell’unione doganale fino a quando non sarà trovata una soluzione, dividendosi così di fatto dal resto del Regno Unito. Questa soluzione inaccettabile per tutti.

«Il Regno Unito si è spaccato perché non è riuscito a venire a capo della questione irlandese», spiega a tempi.it Mario Mauro, esponente del Partito popolare europeo. «Senza la prospettiva europea, l’accordo del 1998 non sarebbe stato firmato. Come potevano pensare di tornare indietro facilmente su questo punto?».

«NIENTE REFERENDUM BIS»

Dal New York Times al Guardian, dal Corriere a Repubblica, dai principali commissari europei ad autorevoli esponenti dei principali partiti politici nostrani e non, tutti sembrano fare il tifo per un secondo referendum. Nella speranza (per ora non supportata dai sondaggi) che dia un risultato diverso dal primo. Secondo una rilevazione di YouGov, il 54 per cento dei britannici vorrebbe esprimersi di nuovo sul tema. Secondo la stampa inglese, però, solo 133 parlamentari su 650 sono d’accordo a indire un secondo referendum e i due partiti principali, conservatore e laburista, temono entrambi di irritare gli elettori che si sono già espressi oltre due anni fa.

Il referendum, inoltre, costerebbe oltre 130 milioni di sterline e l’esito non è affatto scontato: oggi il “Remain”, proprio come due anni fa, nonostante una massiccia campagna stampa a favore, è dato di uno o due punti percentuali in vantaggio sul “Leave”. «È una soluzione che non esiste, la Gran Bretagna è un paese serio, che crede nella democrazia», commenta Capezzone, che oggi scrive per La Verità. Anche per l’ex ministro della Difesa Mauro il referendum bis «è una soluzione molto difficile: chi votò “Leave” nel 2016 si sentirebbe defraudato e si darebbe la cattiva impressione che il voto non vale fino a quando non dà il risultato ritenuto “giusto” da alcuni. E lo dice una persona che, come me, ha fatto decine di interventi a favore del “Remain”». Senza contare che chi ha bocciato l’accordo ottenuto dalla premier May lo ha fatto perché vuole dividersi più nettamente dall’Ue e non rimanere nell’Unione.

PERDIAMO TUTTI

Ora la soluzione più probabile è che Londra, per evitare lo spettro del “No Deal”, chieda più tempo a Bruxelles per intavolare nuove trattative e, precisa Capezzone, «ottenere un accordo più rispettoso della volontà degli elettori inglesi». Anzi, aggiunge Mauro, dovrebbe essere l’Unione Europea «a offrire più tempo agli inglesi, non tanto per nuove trattative, ma perché sanino la clamorosa spaccatura all’interno del loro paese, dovuta anche a politici che non si stanno dimostrando all’altezza del compito, e capiscano come rispondere davvero ai bisogni della Gran Bretagna».

In questo momento di estrema confusione, ragiona l’ex vicepresidente del Ppe, l’unica certezza è che «così perdono tutti, a partire dai cittadini dei Ventisette che vivono in Gran Bretagna e dagli inglesi che vivono nell’Unione Europea». Non solo loro, però: «L’Unione Europea, a voler essere onesti fino in fondo, è molto fragile in questo momento e non avendo la forza di venire fuori dal guado lascerà inevitabilmente spazio a interpretazioni di tipo nazionalistico. Si tornerà a gestire le relazioni internazionali solo sul piano bilaterale. Che non è un peccato in sé, ma l’idea europea era quella di moltiplicare le opportunità per tutti, muovendo verso un’unità sempre maggiore».

Invece non è stato così e per questo, conclude Mauro, «la Brexit si può considerare un’opportunità persa: il referendum inglese è stato una provocazione, un campanello d’allarme, che avrebbe dovuto mettere in discussione l’impianto dell’Ue spingendo Bruxelles a rinnovarsi, per poi recuperare un rapporto privilegiato con Londra. Nessun leader europeo, però, è stato in grado o ha avuto la forza di raccogliere la sfida della Brexit e di cambiare l’Unione Europea».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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