Appunti sul «secolo dei cani lupo»

Lasciatevi condurre al fronte da Vasilij Grossman, che seppe descrivere come nessuno l’orrore della guerra in Russia tra nazisti e comunisti

Questo articolo di Luigi Amicone è tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) e fa parte della serie “Idee per respirare”

Anni 1941-1945. Un immenso fiume di sangue scorre da Stalingrado a Berlino. Cos’è «la spietata verità della guerra»? La verità è che «il popolo è immortale». E la sanguinaria doppiezza comunista nella sua affinità elettiva con il nazismo non è un’opinione. È storia. Storia atrocemente documentata nell’opera di Vasilij Grossman. Forse il più grande giornalista e scrittore del secolo scorso. Gigante che solo la nomenklatura intellettuale europea (e in particolare italiana) ha creduto di poter nascondere sotto il tappetino dell’egemonia culturale. Non ancora svangata oggi, anno di grazia 2016.

Bene, nonostante che nel 1961, Michail Suslov, potentissimo ideologo del Pcus che ancora in epoca Krusciov (che per i gonzi rimane il comunista riformista post-staliniano) presiedeva la sezione culturale del Comitato centrale, giudicasse il romanzo di Grossman Vita e destino un attentato agli interessi dell’Unione Sovietica «più pericoloso delle atomiche americane» e perciò «non pubblicabile prima di duecento anni», di quel romanzo ancora in manoscritto, sequestrato dal Kgb in tutte le copie, infine ne scampò un esemplare e uno soltanto. Una mano pietosa ne fece microfilm. Dal 1980 è stampato e ristampato in Occidente. E dal 1990, anche in Russia.

Bisogna aspettare il 2005 però – il 2015 in Italia – per capire le ragioni di Suslov. Vita e destino, infatti, è molto più che un romanzo. È il traslato letterario dei taccuini che Grossman compilò sul fronte orientale. Uno scrittore in guerra (Adelphi, 2015), curato magistralmente da Antony Beevor e Luba Vinogradova, è il libro che raccoglie questi taccuini. Rifluiti poi nel romanzo di colui che «si dimostrò il più acuto e attendibile testimone oculare di quanto avvenne nelle linee sovietiche dal 1941 al 1945». Appunti che Grossman utilizzò per redigere le sue corrispondenze di guerra per il giornale Stella Rossa, organo dell’Armata Rossa. Articoli inviati (e regolarmente pubblicati secondo i tagli e le rielaborazioni della censura) dalle trincee dove si consumò il più colossale scontro bellico e la più grande carneficina che la storia ricordi. La metà dei sessanta milioni di morti della Seconda guerra mondiale caddero in Russia. Stalin perse tra i 9 e i 10 milioni di soldati e 14, 15 milioni di civili. Ma Hitler perse la guerra e quattro milioni di militari. Nell’immediato Dopoguerra l’Unione Sovietica contò una popolazione inferiore di quasi 27 milioni rispetto a prima del conflitto. La Germania contò nella steppa sovietica l’80 per cento delle vittime tedesche su tutti i fronti. Un’apocalisse.

La sostanza delle cose
Ora, riflettendo su quanto si apprende rileggendo la storia attraverso i taccuini di un giornalista che ha fatto la guardia ai fatti, si capisce quanto siamo distanti dall’aver imparato alcunché dal cosiddetto “secolo breve” forgiato sulle “idee assassine”. Ti parlano della Seconda guerra mondiale con saggi e manuali improntati alle diverse interpretazioni politiche, storiografiche, economiche, sociologiche. Alla fine la sostanza delle cose sfugge. La visione della tragedia scivola via come acqua tra le dita. La distrazione regna su vicende ritenute irripetibili. Proprio come diciamo noi oggi socializzandoci nelle buone intenzioni e complimentandoci nei buoni sentimenti: “Mai più”.

Infatti, complici l’appeasement di Monaco e la follia hitleriana, parrebbe che sopra l’apocalisse dell’Olocausto ebraico e del conflitto più sanguinoso della storia umana, abbia aleggiato la viltà di qualche politico. E i corsi e ricorsi storici dei barbari spiriti della Foresta Nera germanica. Invece, ci descrive attraverso i fatti il giornalista Grossman, la ragione dell’apocalisse sta nel totalitarismo. La cifra spaventosa dei morti e l’impronta nichilista lasciata ai posteri, sono figlie della coppia diabolica che ha fatto del Novecento – così lo definisce Grossman – «il secolo dei cani lupo». Sono l’esito della logica semplice, lineare, consequenziale, di due ideologie che hanno condotto grandi masse verso la stessa identica evasione suicida dalla realtà.

Opposti imperialismi
Prendi gli smandrappati soldati sovietici che, dopo tre anni di resistenza alle supertecnologiche armate tedesche, dopo milioni di morti, feriti e prigionieri, patimenti per il freddo e la fame, episodi di cannibalismo in Ucraina e l’inferno a Stalingrado, contrattaccano e si affacciano oltre il confine della Germania, diventando trucidi come i loro aggressori. Dove passano loro c’è tatticismo infame (Varsavia è lasciata bruciare), c’è stupro di donne (un milione di tedesche), ci sono stragi di prigionieri in ogni villaggio. E però infine stupiscono, i soldati sovietici, e non sanno proprio spiegarsi come sia potuto accadere, annota Grossman, che da quelle loro belle campagne e linde fattorie, i tedeschi fossero andati a fare la guerra «a noi che moriamo di fame».

Già, come gli è passata per la testa a Hitler l’idea di attaccare Stalin? Mentre nell’Europa della metà degli anni Trenta i partiti satelliti del Pc sovietico predicano Fronti Popolari antinazifascisti e combattono Franco in Spagna, nella Berlino dei primi anni Trenta che si sta per consegnare a Hitler in reazione ai vessatori accordi di pace di Versailles, i comunisti danno di “fascisti” ai socialisti e marciano, nei fatti, a braccetto con le camicie brune.

Così, dopo aver provocato la caduta della Repubblica liberale di Weimar (1919-1933), ai due “cani lupo” che sono teoricamente nemici giurati, in pratica bastano pochi anni per riconoscersi e accoppiarsi. Infatti, è in un giorno di mezza estate del 1939 che i ministri degli esteri Molotov e Ribbentrop, massimi esponenti delle diplomazie della Mosca del Partito comunista dell’Unione Sovietica e della Berlino del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, alzano i calici e brindano al loro patto del diavolo. La Germania viene da un quinquennio di tonitruante delirio di potenza, l’Unione Sovietica affoga nel sangue delle purghe staliniane e dei milioni di kulaki ucraini fatti morire di fame dalle pazzesche politiche dei “piani quinquennali”.

Il secondo conflitto mondiale scoppia ufficialmente il 3 settembre 1939. Con la dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Francia e Gran Bretagna. Dopo che l’1 settembre le truppe di Hitler avevano iniziato l’invasione della Polonia. Ma dove si trovano in quel momento l’Unione Sovietica e il Comintern, l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti? L’Unione Sovietica si trova a siglare il patto di non aggressione con la Germania nazista (24 agosto 1939). E due settimane dopo l’invasione di Hitler della Polonia da ovest (1 settembre 1939), Stalin si trova a sua volta a invadere la Polonia da est (17 settembre 1939). Mentre in linea con il patto stipulato da Hitler con il “padre dei popoli” in agosto, il Comintern si trova a qualificare la guerra scoppiata in settembre tra le democrazie europee e il Terzo Reich, come «guerra tra opposti imperialismi». E ad attribuire alle democrazie le maggiori responsabilità.

Succede però qualcosa di razionalmente inspiegabile a due anni dallo scoppio della guerra in Europa e della marcia trionfale delle truppe tedesche. Succede che, nelle prime ore del 22 giugno 1941, rompendo il patto siglato con Mosca di non aggressione e di spartizione dell’Europa, conducendo personalmente la più vasta operazione militare terrestre di tutti i tempi, Hitler attacca l’alleato. Succede che, dal Baltico al Mar Nero, le truppe naziste attraversano i confini dell’Urss, travolgono la debole resistenza delle truppe sovietiche e puntano verso Mosca.

Se Hitler non avesse tradito
Stalin è incredulo. Ha ignorato più di ottanta avvertimenti dei suoi servizi segreti militari. Ed è talmente sconcertato dal “tradimento” dell’alleato nazifascista che da leader antinazifascista rompe il silenzio solo alle 6.30 del 3 luglio 1941. Cioè dieci giorni dopo l’inizio dell’invasione. Allorché i tedeschi hanno già occupato Minsk e si accingono ad assediare Kiev. Quando i panzer e l’aviazione di Berlino hanno già distrutto migliaia di carri armati e blindati sovietici. E inflitto già quasi mezzo milione di perdite – tra morti, feriti e prigionieri – all’Armata Rossa. Gli storici non sanno ancora spiegare perché Stalin ha atteso così tanto tempo prima di proferire parola e denunciare dai microfoni di Radio Mosca la rottura del patto di non aggressione da parte della Germania e chiamare alla «resistenza di popolo».

In effetti è difficile da spiegare come un paranoico del sospetto quale era Stalin non nutrisse alcun sospetto a riguardo delle intenzioni di Hitler, il “nemico” per eccellenza (almeno in teoria) del partito bolscevico sovietico. Ma è andata proprio così. Se Hitler non avesse tradito la fiducia di Stalin, “la guerra tra opposti imperialismi” sarebbe finita in ben altro modo. Probabilmente sarebbe finita con la caduta di Londra e con l’Europa spartita tra i due grandi totalitarismi.

Bombe cucite sui cani
E adesso prendi, butta via manuali e saggi di storia e ascolta come ti introduce ai taccuini di Grossman, il Commissario politico con il grado di generale dell’Armata Rossa, David Ortenberg. Il quale, per prudenza di militante in un partito antisemita, dirige e firma il giornale dell’Armata Rossa con il cognome non ebraico “Vadimov”: «Ricordo la prima apparizione di Grossman in redazione, nel 1941. Era fine luglio. Avevo fatto un salto alla Direzione politica generale e mi avevano raccontato che Grossman aveva chiesto di essere mandato al fronte… Insomma, non me ne andai finché il commissario del Popolo non firmò l’ordine in base al quale Vasilij Grossman era arruolato nell’Armata Rossa e assegnato al nostro giornale».

E adesso, caro lettore, calati nei panni del giornalista inviato al fronte orientale. Il 28 luglio il tuo direttore ti ha assunto in qualità di corrispondente speciale per il giornale dell’Armata Rossa con uno stipendio mensile di 1.200 rubli. Ti aspettano oltre mille giorni in trincea. A Stalingrado brucerai all’inferno. Capirai perché solo i galeotti possono fare l’impresa di resistere e contrattaccare dove neanche gli immortali potrebbero sopravvivere a tanto fuoco e crudeltà all’arma bianca. Un posto, Stalingrado, dove la guerra arriva a circondare un pugno di sopravvissuti di una gigantesca armata, resistenti con l’acciaio dell’uomo siberiano, in un fazzoletto di terra di due-tre chilometri quadrati, a trenta metri dalle trincee tedesche e sotto i bombardamenti a tappeto di centinaia di aerei della Luftwaffe.

Caro lettore nei panni dell’inviato Grossman: uscirai vittorioso dall’inferno, anche se tra i pochi rimasti vivi. Poi, andrai nelle pianure sconfinate del Don a vedere come si fucilano quindicimila soldati “traditori” che non hanno ottemperato alla direttiva di Stalin di non fare «un passo indietro». O come muoiono milioni di fantaccini mandati dal signore di Mosca al massacro solo per dare tempo alle retrovie di riorganizzarsi. Imparerai come si cuciono le bombe molotov sulla schiena dei cagnolini. E come, innescata la miccia, li si lanci sotto i blindati nemici. Godrai la luce di albe magnifiche nel mentre toglierai la carne di un tedesco rimasta attaccata all’elica di un caccia. E sentirai il profumo degli alberi in fiore nell’istante in cui a un carrista vola via la testa, mentre il suo piede resta incollato sull’acceleratore, proseguendo il carro armato la sua corsa e devastando il villaggio.

Un cammello a Berlino
Udrai le parole di Jakovlev, comandante di battaglione, i tedeschi lo attaccano completamente ubriachi, gli occhi iniettati di sangue, respinti tutti gli attacchi, il tenente ferito a morte, i suoi uomini lo stanno trasportando nelle retrovie, ma lui grida: «La voce per comandare ce l’ho ancora, sono un comunista, non posso abbandonare così il campo di battaglia». E poi lì, sul fronte di Brjansk, una vecchietta dirà: «Chissà se Dio esiste o no. Io a ogni buon conto Lo prego. Non è difficile. Basta inginocchiarsi un paio di volte. Magari Lui poi ti esaudisce». Colei che non rivedrai più è tua madre. Di lei sentirai per tutta la vita nostalgia e il rimorso di non averla portata con te a Mosca. Portandola via da Berdicev, Ucraina, dove i nazisti cominciano il massacro degli ebrei.

Ghetto di Berdicev, il 5 e il 15 settembre 1941, primi ventimila ebrei fucilati dalle SS. E tu sei ebreo. E tua madre era ebrea. Qui a Berdicev, dove «per tre volte la terra si era aperta lasciando fuoriuscire un liquido sanguinolento che scorreva per i campi formando enormi pozze striate». E dove «per tre volte i tedeschi costrinsero la Polizei ucraina ad ammucchiare nuova terra, per ripristinare i cumuli e far cessare l’efflusso originato dai cadaveri. Stando a quanto riportano i testimoni oculari che deposero alla Commissione statale dell’aprile 1944, la terra su queste fosse continuò a muoversi per tre giorni».

Infine, primo giornalista al mondo, vedrai l’inimmaginabile, definitiva, eterna, Treblinka. E come hai fatto poi, prima di andartene anche tu, caro Vasilij, con dentro quel senso di «sepolto vivo» pensando per sempre a tua madre e scrivendole per tutta la vita lettere colme di lacrime, a scoprire in quella “Madonna di Treblinka”, la Madonna Sistina di Raffaello, che «guardando lei noi conserviamo la fede che vita e libertà siano una cosa sola e non vi sia nulla di più alto dell’umano nell’uomo»?

Eppure Grillo ce l’ha fatta. Grillo, il mistero più bislacco in questo immenso fiume di sangue scorso al fronte orientale tra il ’41 e il ’45 e racchiuso in 500 pagine di taccuini. Grillo, che la 308° divisione fucilieri si è portato dietro da Stalingrado, è un cammello arrivato a Berlino sano e salvo.

@LuigiAmicone

Exit mobile version