Anche il diavolo ha paura del libro di Enzo Piccinini

Leggere "Il fuoco sotto la cenere" è come andare contro un tram, ma un tram chiamato desiderio, come «l’urto con una presenza umanamente eccezionale», come diceva di lui il suo maestro don Giussani

Tratto dal numero di settembre di Tempi.

Mio caro Malacoda, i nemici vanno rispettati. Riconosciuti nella loro grandezza e rispettati. Io per alcuni arrivo sino all’ammirazione. La scorsa settimana ne ho riscoperto uno che credevo morto e sepolto. E invece è vivo, e lotta contro di noi. Passavo per Rimini per la mia annuale visita informativa e documentale al Meeting per l’amicizia tra i popoli e in libreria l’occhio mi è caduto su Il fuoco sotto la cenere di Enzo Piccinini, medico chirurgo morto in un incidente stradale nel 1999. L’ho comprato d’istinto, sarà stato per la parola “fuoco”…

Il libro raccoglie quattro conferenze di presentazione di altrettanti libri. Da stropicciarsi gli occhi dalla noia! Ma dovevo dare un senso ai 14 euro spesi. Mi sono seduto su una panchina, incurante del frastuono intorno a me. E l’ho letto. Ti confesso che mi ha molto colpito, è stato come andare contro un tram, ma un tram chiamato desiderio, come «l’urto con una presenza umanamente eccezionale», come diceva di lui il suo amico e maestro, don Luigi Giussani.

Ho faticato a riprendermi dall’entusiasmo, a distaccarmene congelando in me il fuoco che aveva riacceso. Riacquistata la freddezza cinica a noi propria sono ora in grado di elencarti i motivi per cui lo considero pericolosissimo. Il cristianesimo per lui inizia con un incontro e prosegue con un «processo di formazione». Ha una cultura dell’incontro a 360 gradi. Non lo materializza alla stretta di mano. Può succedere anche con un libro. Ma supera l’intellettualismo della cultura libresca e polverosa considerando un consiglio di lettura come «un gesto di amicizia».

Aveva colto la supremazia e l’invadenza della «politica dell’immagine» sin dall’inizio degli anni 90, una politica alla quale «non ci si sottrae». Ma non la inseguiva, pensava piuttosto a «distruggerla», e lo strumento potevano essere proprio i libri, «perché il pensare, leggendo, implica mettere in moto tutte le qualità umane. È un incontro, un messaggio, un viaggio». Di più, in un tempo in cui la competenza e la professionalità incominciavano a diventare idoli autoreferenziali, lui, chirurgo d’assalto, sosteneva che «una formazione umana centrata decide di un livello professionale».

Non è un cristiano dottrinario ma, se così possiamo dire, un umanista convinto che la «posizione vera è quella innamorata dell’umano che solo il cristiano ha». Specularmente, parlando di quel bolscevico di Vassilij Grossman, a chi gli obietta che Vita e destino non parla di Gesù Cristo risponde: «Questo libro dice di una posizione umana tale che, se noi la perdessimo, Gesù Cristo potrebbe venire qui e noi non ce ne accorgeremmo». Non è un cristiano ideologico con il problema dell’egemonia.

È un cristiano, se così possiamo di nuovo dire, religioso, cosciente che «l’atrofia del senso religioso (la percezione vivida che l’uomo non si compie da sé e che per essere felice ha bisogno di altro, ndr) distrugge l’uomo anche quando si muove con le più buone intenzioni del mondo». Di più, nel nome di un «bene comune» unilateralmente affermato, diventa violento. La violenza del potere a cui non è sfuggito e non sfugge neanche il cristianesimo. Ritiene invece che «il giudizio cristiano è una presenza e non una certa teoria sulla vita».

Ha fede nell’uomo e nella sua bontà, una «bontà insensata», cioè gratuita, che emerge anche nei bassifondi più luridi della storia, ma sa che non ha la forza di essere speranza, «è incapace di incidere nella storia» perché «il potere la trascina con sé». Sia chiaro, non disprezza questa bontà insensata, come non è da disprezzare oggi il volontariato, ma ne vede i limiti, che sono quelli dell’uomo. Infatti, «la fierezza di essere stato buono una volta è una gloria bagnata di lacrime e con dentro il singhiozzo del giudizio» per l’incoerenza che sempre sopraggiunge.

Non è un cristiano trionfante, anche se amava la battaglia e giocava per vincere, ma ben conosce la sofferenza «che mette a nudo, crudamente, senza possibilità di mascheramenti, quello che l’umanità vale». E da chirurgo che opera quasi sempre sul limite sa che “il nostro problema non è aiutare a morire, ma aiutare a vivere sapendo che c’è la morte”. Perché «la vita cristiana è un permanente dramma» e «non c’è niente di più anticristiano di chi cerca di mettersi a posto la vita».

Soprattutto Enzo Piccinini pensava che se Dio si è fatto uomo «cambia tutto». Incontrandolo, e animato da un’umiltà virile e operosa, è diventato un uomo indomabile. Vedi, se riesci, caro nipote, a nascondere questo libro. Tuo affezionatissimo zio Berlicche.

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