I prochoice vogliono salvare i bimbi dal trauma dell’adozione. Con l’aborto

Il giudice Amy Coney Barrett osa ricordare che ovunque in America si può rinunciare alla genitorialità dopo il parto. E le abortiste insorgono: «Rinunciare? Non è un grumo di cellule». Proprio così

L’udienza di conferma del giudice Amy Coney Barrett, sette figli, due adottati, nominata alla Corte Suprema degli Stati Uniti (foto Ansa)

Ma come si permette Amy Coney Barrett, giudice della Corte Suprema, sette figli di cui due adottati di Haiti, di porre domande sull’adozione ai sostenitori del diritto di aborto? Peggio: di suggerire, con le sue domande, che «una cosa che è infinitamente più difficile, costosa, pericolosa e potenzialmente traumatica rispetto all’interruzione di una gravidanza nelle sue fasi iniziali» possa rappresentare una alternativa all’aborto? «In quanto madre adottiva, il giudice Barrett dovrebbe avere una vaga idea della complessità dell’adozione e del prezzo che può far pagare ai bambini, così come alle madri naturali».

Questa di Elizabeth Spiers (adottata quando era bambina) sul New York Times, è solo la prima di una lunga serie di opinion, lettere indignate, strepiti, grida di donne americane ospitate dai giornali contro il giudice Barrett. Che il 1 dicembre, durante le argomentazioni orali dell’ormai celebre “caso del Mississippi” Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, caso che potrebbe ribaltare la storica sentenza Roe v. Wade, ha osato chiedere all’avvocato delle cliniche perché, se a preoccupare sono modi e conseguenze attraverso le quali una genitorialità forzata danneggerebbe le donne, non occuparsi del problema con le «safe haven laws» che in tutti i 50 Stati americani rendono possibile rinunciare ai diritti genitoriali dopo la nascita.

Cosa è cambiato da Roe v Wade

Barrett ha ragione e non solo nel merito delle argomentazioni presentate ai giudici: oggi nessuno, in America, costringe una donna a crescere un bambino se non lo vuole. Le leggi sui “rifugi sicuri” consentono alle madri di abbandonare i loro neonati in luoghi protetti – come chiese, ospedali e caserme dei vigili del fuoco – senza timore di essere accusate del reato di abbandono di minori. Senza dubbio gravidanza e parto forzati «rappresentano una violazione dell’autonomia corporea», dice Barrett. Tuttavia non solo il problema degli oneri genitoriali è superabile anche oltre le 15 settimane di gestazione (termine per l’aborto stabilito dalla contestata legge del Mississippi) grazie all’adozione; ma le “safe haven laws” (la prima firmata da George W. Bush in Texas nel 1999) non erano in vigore ai tempi della sentenza Roe v. Wade e nemmeno della sentenza Planned Parenthood v. Casey (che stabilì che l’aborto è praticabile fino a quando il feto non sia autosufficiente, cioè fino a circa sette mesi di gravidanza): di questo, si può immaginare dopo l’uscita di Barrett, la Corte dovrà tenere conto.

Partorire fa male, abortire no

Per tutta risposta l’avvocato delle cliniche, Julie Rikelman, ha ricordato a Barrett che è 75 volte più pericoloso partorire in Mississippi che abortire, in particolare per le donne di colore; mentre il procuratore generale degli Stati Uniti Elizabeth Prelogar l’ha accusata di trascurare «le conseguenze del costringere una donna a dover decidere se dare un bambino in adozione». Meglio, e meno traumatico, disfarsene prima. Perché diventato “diritto”, “dramma e dolore” non sono più parole riservate all’aborto, ma alle sue alternative. Se la corte ribalterà la Roe v Wade, scrive ancora Spiers, sottolineando che l’adozione è una scelta più traumatica dell’aborto, molte donne «subiranno il legame con un bambino; «non si tratta di rinunciare a un pezzo di cellule, ma a un bambino completamente formato con cui hanno vissuto per nove mesi»; «il giudice Barrett è ben consapevole del tipo di lavaggio del cervello biologico che avviene durante la gravidanza;  ha dato alla luce cinque figli»; «I ricercatori hanno un termine per ciò di cui i bambini adottati, anche da neonati, possono soffrire più avanti nella vita: trauma dell’abbandono»; «Quando il loro primo custode non è la madre biologica, registrano la differenza e lo stress ha effetti duraturi» (tutte argomentazioni che ci aspettiamo vengano riproposte dal New York Times a proposito di maternità surrogata).

A Spiers hanno fatto eco numerosi lettori: «Sì, la vita è preziosa. L’atto di dare alla luce e di prendersi cura di un bambino costituisce la responsabilità umana più profonda. Per queste ragioni, dobbiamo tutelare il diritto all’aborto», scrive Anne: sua madre ha dato in adozione un bambino e ne è rimasta «traumatizzata». David ricorda che quando ha adottato i suoi figli, tra il ’68 e il ’71, solo il 10 per cento dei 300 bambini neri dati in adozione ogni giorno a Chicago trovava casa, il resto finiva in orfanotrofio o in affidamento, un destino troppo doloroso per chi li aveva messi al mondo.

«Barrett razzista bianca»

Per Karen, Barrett «vive in una torre d’avorio cattolica», mentre sua madre l’aveva costretta a non abortire per dare in adozione il bambino, e, dopo la nascita, l’aveva sbattuta fuori di casa. Ann ricorda «il dolore e la perdita che ho visto sui volti dei genitori naturali» del neonato che ha adottato. «Ammettilo, sono un errore e anche i miei fratelli lo sono. Nessuno rinuncia a un bambino a meno che non sia un errore», ha detto la figlia adottiva di soli dieci anni a Mary (anche questo è da segnarsi per i prossimi spottoni all’utero in affitto solidale). «L’adozione è un evento enorme e profondo con infinite ramificazioni. Fingere che sia un’alternativa facile e senza complicazioni all’aborto è ingenuo», scrive Jessica.

Sul New York Magazine, attiviste, docenti e scrittrici attaccano Barrett raccontando storie di adozioni traumatiche per le donne: «L’aborto era in realtà l’opzione più sopportabile dopo aver dato un bambino in adozione»; «Gli adottati hanno quattro volte più probabilità di tentare il suicidio, e questo è in parte dovuto all’anonimato dei genitori naturali, perché non conoscono le proprie radici, non sanno da dove vengono»; «il punto non è se sono grata o meno che la mia madre naturale non mi abbia abortito, è che meritava di essere in grado di fare una scelta». Tra le voci spicca quella di Angela Tucker, scrittrice, produttrice, attivista, adottata, autrice di un post diventato virale sulle «microaggressioni» compiute da Barrett nei confronti dei figli haitiani durante l’udienza per la nomina alla Corte Suprema: «Qualcuno ha notato come Amy Coney Barrett ha parlato dei suoi figli biologici in termini di abilità intellettuale e dei suoi figli adottivi  ha parlato solo della loro storia traumatica? Questo è un ottimo esempio di pregiudizio implicito. Razzismo inconsapevole. Questo è un esempio di  white saviorism».

Il “mio diritto queer” e quello del bambino

Su Vogue Emma Specter rincara: «Quelli della specie di Barrett sembrano determinati a usare l’adozione non solo come correttivo morale ma come mezzo di libertà riproduttiva», «come se l’aborto fosse un dilemma morale da sbrogliare, piuttosto che una procedura medica»; «il mio diritto ad essere genitore come persona queer non dovrebbe essere minimamente legato al fatto che un’altra persona sia costretta a portare a termine la gravidanza», «voglio disperatamente dei bambini (…) Voglio vivere, e un giorno diventare genitore, in un mondo in cui tutte le persone incinte abbiano il potere di fare le scelte giuste per se stesse e le loro famiglie. Vorrei solo che le nove persone che si pronunciano sui miei diritti nella più alta corte del paese lo volessero anche per noi».

“Noi”, cioè adulti pronti a tutto per il diritto di essere genitori e avere figli. E per sbarazzarsi, una volta per tutte, dei diritti di questi figli di nascere, crescere, avere madre e padre a prescindere dai loro desideri. Come si permette Amy Coney Barrett di parlare di adozione?

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