“Addio Milano bella”, grande operazione verità sulla resa della sinistra alle toghe

Il nuovo giallo di Festa, giornalista ed ex dirigente del Pci milanese, è un sofferto tour dietro le quinte della sbandata manipulitista e dei suoi effetti distruttivi per il partito e per il paese

Addio Milano bella, il libro di Lodovico Festa recensito in questo articolo, sarà presentato mercoledì 27 gennaio alle 18.30 dall’autore e da Luigi Amicone, modera Giulio Meotti del Foglio. L’incontro, promosso dall’editore Guerini e da Tempi, può essere seguito via Zoom e in diretta Facebook dalla pagina di Guerini.

Addio Milano bella è anche una pagina Facebook curata dallo stesso Lodovico Festa.

***

S’impara sempre un sacco di cose leggendo i romanzi di Lodovico Festa. È così per La provvidenza rossa (2016); è così per La confusione morale (2019, recensito nel numero di Tempi di maggio di quell’anno); e adesso Addio Milano bella, ultimo capitolo di questa trilogia di gialli con protagonista l’ingegnere Mario Cavenaghi, uscito una decina di giorni fa per Guerini, completa e corona una preziosa e intelligente “operazione verità” (termine non casuale, come vedremo) insolitamente architettata in forma di fiction.

Dai romanzi di Festa s’impara per esempio a capire qualcosa della ricchezza di Milano, attraverso i tanti scorci ora mirabili ora desolati percorsi dai personaggi del libro, angoli urbani sempre raccontati dall’autore con evidente passione, e osservati con sguardo perfino più assetato di senso di quello dei loro stessi abitanti.

S’impara inoltre a rileggere, ripercorrere la storia del nostro paese sotto una luce tutta diversa da quella fioca e uniforme usata in tanti libri di scuola. Così ogni epoca appare improvvisamente come una gigantesca trama di grandi moti e fenomeni dell’umanità, ma intrecciati in modo inestricabile con la vita particolare di popoli e persone, ciascuna con le sue aspirazioni individuali e pulsioni anche spicciole.

Leggendo Addio Milano bella s’impara, soprattutto, a osservare dall’epicentro e con la giusta profondità le cause, gli attori, le deviazioni e gli effetti distruttivi di una stagione fondamentale per capire il nostro presente, quella di Mani pulite.

Il bello è che tutto questo lo si impara senza infliggersi le fatiche di un saggio sociopolitico, bensì godendosi l’intrigo di un romanzo giallo.

LA TRAMA E IL TORMENTO

Siamo appunto a Milano nel febbraio del 1993. Tutto, in città e fuori, è messo a ferro e fuoco dalla furia giustizialista. Come se non bastasse, i vertici locali del Pds, già Pci, partito già parecchio scosso dal terremoto in corso (per non parlare del crollo dell’Urss), sono messi in agitazione da alcuni fatti misteriosi: strani viaggi omaggio in terre ancora tenacemente comuniste “offerti” a iscritti delle sezioni pidiessine milanesi da un ignoto istituto di ricerca sociale olandese e, peggio, l’improvviso inspiegabile ammanco di due dei sei miliardi di lire del fondo segreto del partito, custodito «per evenienze drammatiche» in un appartamento sicurissimo fin dai tempi in cui la quercia era ancora falce e martello.

Di cosa si tratta? Un complotto di Rifondazione comunista? Una trovata di qualche servizio segreto intenzionato a condizionare il Pds? Una trappola della magistratura? A risolvere l’enigma viene chiamato il citato Cavenaghi, ex presidente della commissione lombarda dei probiviri, comunista del vecchio conio uscito deluso dal partito dopo la svolta-naufragio del 1989, trasferitosi a Lugano abbarbicato all’«unica zattera» rimastagli «per dare un senso alla vita»: la famiglia.

Cavenaghi accetta l’incarico un po’ per affetto verso il suo ex popolo alla deriva, un po’ sperando di chiudere definitivamente i conti con un partito che non ama più, e di disintossicarsi così dagli «antichi fantasmi» (di qui il gioco di rimandi tra il titolo del libro e la celebre canzone dell’anarchico Pietro Gori, Addio Lugano bella).

Le domande sul misterioso furto ai danni del Pds tormenteranno la lettura rendendola coinvolgente, ma il vero cruccio di Cavenaghi diventa ben presto quella che dovrebbe essere soltanto la sua “copertura”: per permettergli di indagare e interrogare potenziali testimoni e sospettati di tutte le estrazioni, i vertici del partito affidano all’ingegnere il compito di stilare un rapporto su opinioni, congetture e stati d’animo diffusi nella città sotto assedio giudiziario. Si capisce che è questo in realtà anche il cruccio di Festa, cercare giudizi di valore, «un minimo di verità», sulla rivoluzione in corso.

LA CULTURA DEL SOSPETTO

Attraverso i tanti incontri e dialoghi condotti da Cavenaghi nei suoi 15 giorni di indagine – scanditi ogni mattina dal contrasto tra la visione del tranquillo e puntuale tg ticinese e la lettura dei caotici e un po’ violenti giornali italiani – emergerà un ritratto della società milanese anni Novanta – e del Pds in primo luogo – in cui le parole prevalenti sono sbandamento, disgregazione, esaurimento (di energie), macerie.

«Dietro a tanti, talvolta tragici comportamenti di un tempo», dice a un certo punto il segretario della Camera del Lavoro milanese al protagonista, «potevi leggere le grandi sfide del nostro impegno: la difesa delle condizioni del popolo, la lotta per la pace e la libertà, il senso del partecipare a una grande storia universale. Ora hai spesso la sensazione che tante mosse tentate in questi giorni servano solo a preservare la pensione di chi le fa».

Il fu Pci, traumatizzato dal diluvio di indagini per corruzione/finanziamento illecito con conseguenti gogne mediatiche, si è ormai rassegnato a fare da spalla parlamentare dei pm d’assalto. Solo negli esponenti più acuti inseriti da Festa nel racconto domina lo sgomento per una storia politica che fu gloriosa e ora è ridotta a una pavida combriccola di gregari sottomessi dove «avere governato un comune era un indizio di colpevolezza».

POSIZIONI SCOMODE

Quanto all’orientamento dell’autore, ci sono diversi passaggi che sembrano illuminarlo. Per esempio questo scambio di battute tra Sandra Novelli, «nota architetta e già presidente della Provincia», e Cavenaghi:

«“Sono tante le ragioni che non ci hanno consentito di avere un sistema legislativo e amministrativo abbastanza trasparente come quello di altri grandi Paesi europei, dalla Francia alla Germania alla Gran Bretagna. A partire dai condizionamenti della Guerra fredda. E alla fine degli anni Ottanta certe prassi in sé non commendevoli, ma frutto di compromessi con la realtà storica per quella che essa era, sono degenerate fino a livelli intollerabili. Ciò però non consente di fare di ogni erba un fascio, e di linciare moralmente persone che hanno non solo fatto il proprio dovere, ma gli interessi delle comunità che amministravamo o in cui comunque operavano”.

“Non credo, visto il clima, che le tue posizioni possano raccogliere un grande consenso”.

“Talvolta non si possono dire alcune verità in pubblico, ma se nei gruppi dirigenti non si riesce a dirsi la verità neanche nelle discussioni interne, non si andrà da nessuna parte”».

IN CERCA DI UNA CASA PER LE LIBERTÀ

Quello della verità è evidentemente un tema chiave per Festa: emerge spesso, nelle parole dei personaggi più lucidi, il disperato bisogno di quella verità sommersa da un circo mediatico giudiziario che vede in ogni uomo un corrotto e in ogni cosa il marcio; quella verità sempre più taciuta per paura, calcolo, ottusità. Tanti, nella Milano del 1993 rievocata da Festa, hanno ancora l’onestà intellettuale per dirsi che c’è un disperato bisogno di verità, almeno «un minimo di verità», ma si capisce che sono loro gli sconfitti.

Il risultato della pavidità e del tartufismo opportunista del fu Pci davanti al clima forcaiolo sarà pessimo per il partito stesso: in diversi passaggi Festa fa capire bene perché dopo l’ordalia giudiziaria una parte della sinistra (socialista ma non solo) preferirà passare «con chi si assumerà lo storico compito di salvare uno Stato liberale in Italia» o comunque si convincerà «che sia non solo opportuno andarsene ma anche impegnarsi perché gli uomini del sospetto sull’inquisibilità siano sconfitti politicamente». Idem per grandi pezzi della società civile e imprenditoriale.

INFAUSTE PREMONIZIONI

Ma l’uscita “a destra” di tanti compagni amanti della verità e della libertà non è il solo effetto esiziale della sbornia giustizialista del Pds. Nel corso della sua indagine Cavenaghi registra anche molto allarme per una possibile, incontrollabile onda populista antipolitica alimentata a rancore dal circo mediatico giudiziario di cui sopra, e favorita dalla distruzione di un’intera classe dirigente. E siamo alle premonizioni del grillismo.

Facile, si dirà, fare profezie ex post. E invece, come detto, Addio Milano bella è una benefica “operazione verità”, dal momento che Festa stesso è stato un dirigente di primo piano del Pci che squaderna nel libro. Nei dialoghi di questo giallo ritornano analisi che l’autore offre da anni sui giornali (tra i quali il Foglio, di cui è stato condirettore accanto a Giuliano Ferrara, il Giornale e Tempi). Soprattutto vi riecheggiano battute, angosce, riflessioni che all’epoca sicuramente circolavano davvero dietro le quinte del partito.

INDOVINA CHI

Poi in Addio Milano bella c’è il consueto giallo nel giallo, divertissement a cui Festa ha ormai abituato i suoi lettori: la sfida è riconoscere i personaggi reali che si nascondono dietro i nomi inventati dal narratore per preservare la verosimiglianza della trama senza dover rinunciare alla creatività (e anche a un po’ di sarcasmo). Alcuni si indovinano facile, come il disarmante segretario nazionale del Pds “Ettore Papperi”, il patron della “Ciat” di Torino “Geppi Capretti”, il quale «invece di assumersi le responsabilità sul sistema unico politica-economia, che regolava parte decisiva della vita della nostra società, si vuole presentare come “concusso” da quei cattivoni dei politici», oppure “Beniamino Franceschi Savelli”, il «magistrato spaventato» a capo del pool della procura milanese partito alla «riconquista del regno della legge», o ancora il grande immobiliarista «diventato poi il re delle tv private», “Sergio Cazzaniga”, in procinto, secondo alcuni interlocutori di Cavenaghi, di buttarsi in politica. Per altri nom de plume il gioco del riconoscimento si fa più duro, ma gli indizi non mancano: buona soluzione del giallo.

Foto Ansa

Exit mobile version