Un’altra guglia di un altro Duomo di un’altra Milano

Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Milano. Sulla nuova metrò 5, linea automatizzata, senza conducente. Dalla vetrata del vagone di testa il tunnel si snoda livido, illuminato da luci fredde. Il treno segue i suoi binari lucenti e corre sicuro dal Sempione a Garibaldi: cinque minuti appena, fantastico.

Ora costeggia il Cimitero Monumentale –mi immagino a pochi metri da qui i marmi neri, e le linee superbe delle tombe di famiglia – ma non si ferma, anzi accelera. Un sistema elettronico individua eventuali ostacoli sui binari: non c’è bisogno di alcun uomo, in cabina. Capiterà, nelle ore morte, d’estate, di trovarsi assolutamente soli su un vagone, penso fra me.

Quando ero piccola, sui tram c’erano ancora i bigliettai, che emettevano il biglietto girando una manopola con uno scampanellio breve; e parlavano, con i viaggiatori, in dialetto. Su questa metrò che corre da sola, con gli occhi fissi al fondo della galleria, mi sento addosso la pressione del tempo che passa e trasfigura. A Milano poi è come se, ultimamente, il tempo avesse accelerato, e ne sentissi il fiato addosso. Questi giganti di vetro e di acciaio, a Porta Nuova, si ergono in tutta la loro mole attorno alla guglia altissima del grattacielo dell’Unicredit, anzi ora del Qatar. E mi sembra un’altra guglia di un altro Duomo, di un’altra Milano.

Anche la gente per strada è diversa, certo a causa dell’Expo, una Babele di cinese e arabo e russo. Non è nostalgia la mia: è sentirsi come se la città in cui sei nata ti avesse superato, e ora corresse avanti, più veloce, lasciandoti indietro. È come se, a questa città, tu non fossi più adeguata; e altri, di paesi stranieri e lontani, e giovani, fossero convocati ad abitarla.

E ora capisco lo sguardo che vedevo, da bambina, nei vecchi milanesi, sui primi treni del metrò. Si ricordavano, loro, della Milano di fine secolo, con i Navigli aperti, e i carretti a cavalli. Sembravano straniti sui treni che correvano nel buio, sotto la città.

Ho trovato l’altro giorno sul web una foto di Porta Nuova a inizio anni Trenta, quando appena era stata demolita la vecchia Stazione Centrale, che era all’altezza di piazza della Repubblica. Davanti alla chiesa di San Gioacchino c’era un immenso ammasso di macerie, e al vederle ho sussultato, perché esattamente su quelle macerie sarebbe sorta, dopo la guerra, la casa in cui sono nata. E allora ho pensato che dalle vecchie case vicine, in via Viviani, in via Fara, i milanesi coi capelli bianchi guardassero nel 1950 sorgere quei palazzi di cemento, alti dieci piani, e poi il Pirelli, con l’animo che ora io mi sento dentro: come il fiato addosso del tempo, che incalza.

Non voglio avere nostalgia, perché è una cosa inutile. Però mi chiedo che cosa mi salva da questa malinconia. Distrarsi, non pensarci? Non serve. Nulla funziona, mi pare, contro il fiato del tempo, se non un Dio presente ed eterno, che ci trarrà, dal tempo, fuori. «L’eterno presente di Dio», disse Benedetto XVI in una delle sue ultime udienze. Solo in questo tempo salvato, nella nuova Babele orgogliosa di cristalli e acciaio, c’è una speranza in cui io posso confidare.

Foto Milano Porta Nuova da Shutterstock
Foto Milano Metro 5: Ansa

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