Le fiamme della Turchia rischiano di trasformare la primavera araba in un orrido inverno

Il crollo di Gheddafi e di Mubarak ha spostato verso il basso gli equilibri di potere geostrategici in Africa. Se crolla anche Assad sarà un disastro incalcolabile

Le fiamme della Turchia hanno un significato che va oltre ciò che accade in quella nazione. Il Nord Africa e il Medio Oriente, infatti, sono stati e sono il primo banco di prova di uno sbilanciamento dei rapporti di forza che ha indotto gli Stati Uniti a una illusione di autosufficienza e di onnipotenza strategica e militare insieme. Oggi la strategica solitudine della Russia impedisce ogni contenimento delle spinte aggressive di tutte le potenze regionali a medio raggio che possono esercitare un ruolo superiore a quello loro possibile, perché consentito da una fallimentare strategia di contenimento delle disgregazioni sempre periclitanti dell’area Nord e Centro Africana.

La Turchia persegue disegni neo imperialistici e mette in pericolo il patto militare con Israele che era uno dei punti di forza archetipali dell’equilibrio dell’aerea, e che iniziava da quel patto, proseguiva con il ruolo stabilizzatore della Siria, proseguiva ancora con la neutralizzazione dei palestinesi grazie al ruolo di gendarme della monarchia ascemita in Giordania e terminava, infine, in Egitto con il ferreo controllo armato del Sinai da parte di Mubarak. Ora tutto è stato messo in discussione per l’esosità di militari che si rivelano, però, oggi, non sostituibili.

La necessità di “tornare a Westfalia”
L’Egitto è stato abbandonato dagli Stati Uniti nel suo storico costrutto di potere perché si riteneva che l’assenza dell’Urss potesse consentire un cambio della guardia tra gli esosi mubarakiani e i normalizzati Fratelli Musulmani che potevano succedere al potere degli stessi senza intaccare il laicismo egiziano. Questo significava non aver compreso nulla delle trasformazioni del continente simbolico islamico. I Fratelli Musulmani hanno una tradizione ricchissima di ingegno, di pazienza, di tattica scaltra, che ha avuto il suo banco di prova in una Giordania che li ha resi atti a una operazione di penetrazione nelle istituzioni senza per altro perdere il loro carattere di movimento di massa, e come tutti movimenti di massa, conservano una grande varietà di articolazioni, di anime politiche al loro interno. E conservano anche quella capacità di essere disponibili alla discussione, elaborazione, implementazione e tremenda attuazione delle tesi più estreme, proprio essendo non dei diseredati. I Fratelli Musulmani come i salafiti, come i jihadisti, non sono gli affamati della terra come afferma la retorica terzomondista mai morta nel modo di oggi, ma raffinati intellettuali, tecnici, esperti, costruttori di network a più volti, come dimostra l’esperienza di Bin Laden.

Il crollo di Gheddafi e di Mubarak ha spostato verso il basso gli equilibri di potere geostrategici in Africa. Se crolla anche Assad sarà un disastro incalcolabile per la proliferazione bellica e terroristica che ne seguirà. Altro che primavere: saranno orridi inverni… Vi sono armi, truppe addestrate come i Tuareg, conflitti interraziali, conflitti intereuropei (basti pensare a quello attorno ai grandi laghi tra francesi, inglesi e nordamericani). Ci sono tentativi di colpi di Stato in Eritrea ed Etiopia e spostamenti di truppe, di eserciti che di esercito hanno solo il nome e che debbono essere sorretti, armati, diretti da potenze europee e nordamericane.

In Africa andar sul terreno è poi essenziale. Non c’è spazio per nessuna dottrina Rumsfeld. Il disegno sovranazionale dei jihadisti e dei salafiti e il ruolo sempre più enigmatico e misterioso dell’Arabia Saudita, disposta a tutto – non dimentichiamolo – per distruggere l’Iran e sradicare lo sciismo dal continente nero e dalle tre faglie prima evocate, aprono inquietanti interrogativi sul futuro. O si ritorna alla Pace di Westfalia, ossia al concetto che ogni Stato dispone da sé e per sé della sua costruzione istituzionale senza interferenze esterne, o tutto crollerà inevitabilmente in un dolorosissimo disordine. “Tornare a Westfalia” è l’unica strategia possibile che deve essere perseguita grazie a un accordo tra Unione Africana, Europa e Russia e Stati Uniti e Cina (interlocutore silenzioso ma sempre presente che non ha ancora scoperto le proprie carte).

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