Terremoto Centro Italia. Dalle stalle alle stalle

Nel cratere del sisma, tra strutture allagate, balloni di fieno e bestie a cielo aperto, la macchina degli aiuti e il moloch burocratico lottano come titani. E ovunque regna una promessa: «Non ce ne andremo»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Qui ci piantumano radici più robuste dei querceti. Operosi nel silenzio, indisponibili a barattare con alcunché la sicurezza di un posto che la terra ha provato a scrollarsi di dosso una notte di fine agosto, uomini e bestie sono ancora qui: per onorare l’antica collaborazione con la natura vivente, quel pulsare sotterraneo che da secoli genera e divora il crescere umile e immenso della dorsale rurale, che è economia e al contempo fede solida e indiscussa di un suolo forgiato da terremoti e vulcani.

È intriso d’anime rocciose come il massiccio del Gran Sasso e dei Monti Sibillini il destino delle regioni depredate di corpi e spiriti dalle scorrerie del terremoto, luoghi geologicamente inquieti, dove tranquilla è solo la gestazione di una positività fiera, figlia delle mani callose e delle pieghe della pelle bruciata di chi conosce la terra, le sue creature e le sue leggi. Un’umanità devota nei fatti e impossibile da sradicare, ma ridotta alla schiavitù infelice da una giogaia di scartoffie partorite dal ventre gelido della burocrazia. «Da qui non ce ne andremo», è il grido che si è alzato da agricoltori e allevatori ad agosto, ottobre e gennaio da Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo, squassate dalle scosse e danni che il fascicolo inviato dal Dipartimento Protezione Civile a Bruxelles per l’attivazione del Fondo di solidarietà dell’Ue stima in 23,5 miliardi di euro. «Da qui non ce ne andremo», mentre il Consiglio dei ministri estendeva lo stato di emergenza autorizzando alla fine di gennaio un primo stanziamento di 30 milioni di euro destinato a far fronte esclusivamente ai primi urgenti interventi di soccorso legati alla fase di emergenza. «Da qui non ce ne andremo»: e prima ancora che si levasse il grido c’è chi aveva già attivato uomini e risorse, figlie anch’esse della terra e delle sue spinte vitali.

Torbole Casaglia (Bs). «Il nostro lavoro è un matrimonio. Va accudito ogni santo giorno. Andarsene è tradire un impegno preso con la vita. Puoi perdere tutto, lo so perché dieci anni fa mi è andata a fuoco l’azienda. Ero in ginocchio, ma qualcuno mi ha dato una mano e ora quella mano posso tenderla io». Carica i camion, Enrico Bettoni: la sua azienda agricola Paradiso si trova a Torbole Casaglia, nel bresciano, 540 chilometri da Teramo, dove uno dei tanti centri di raccolta gestiti dalla Protezione Civile continua a ricevere da tutta Italia i carichi preziosi della campagna “Dona un ballone di fieno” promossa da Coldiretti per garantire l’alimentazione degli animali nelle zone terremotate. «Il primo camion è partito due settimane fa, ho chiamato gli amici, chi non aveva fieno ci ha messo il denaro per il viaggio, che non costa meno di 800 euro. Abbiamo mandato giù 400 quintali, ora ho pronti altri due camion e mi sto organizzando per l’invio di mangime. Gli animali non sono macchine che puoi riparare a fieno, ti danno da vivere, si ammalano, se non lavori come noi 17 ore al giorno non capisci cosa significa ritrovarteli ammazzati sotto la stalla. Io ho provato: 26 animali e 3.000 quintali di fieno andati in fumo. Preferiresti morire piuttosto che abbandonarli e spezzare una catena di generazioni».

Lui, per esempio, si porta addosso un mestiere iniziato dal nonno e lo stesso credo che riempie di eco la faglia appenninica: «Nulla senza sacrificio. Viviamo scoperti, in preda a grandine, siccità, alluvioni, i parti delle bestie di notte, lavoriamo ogni giorno per ore per dare a noi e ai nostri figli un posto sulla terra. E nella buona e nella cattiva sorte ci resteremo».

Dalla Lombardia al Veneto, dal Friuli alla Toscana. La solidarietà è scattata anche in forma di disponibilità di posti stalla per gli animali sfollati: oltre 2.000 in pochi giorni. «Sono decine di migliaia i capi morti, feriti e abortiti nelle aree del terremoto per l’effetto delle scosse, della neve e del gelo. Quelli vivi hanno subito stress gravi che hanno fortemente compromesso la produzione del latte». Ettore Prandini, presidente Coldiretti Brescia, non lo racconta, ma ci ha messo subito del suo, offrendo oltre cento posti per bovini da carne in un’azienda agricola di sua proprietà. «Abbiamo avviato alcune operazioni come “Adotta una mucca” per raggiungere le stalle isolate e trasferire animali e imprenditori in strutture provvisorie. Non è semplice, servono mezzi idonei per il recupero e il trasporto». In collaborazione con il ministero dell’Agricoltura, l’Associazione italiana allevatori, i Consorzi agrari, Coldiretti ha provveduto fin dal primo sisma alla consegna di mangiatoie, mangimi, fieno, carrelli per la mungitura, refrigeratori e generatori di corrente ma anche gasolio, teli di copertura roulotte, camper e moduli abitativi. «È una corsa contro il tempo, sono decine e decine i fienili, le stalle di bovini, ovini, porcilaie e strutture per il ricovero di avicoli ed equini crollate. Le attività in troppi casi sono state interrotte».

Sono circa tremila le aziende agricole e le stalle che sono state sepolte dalla neve in Comuni di montagna e mezza montagna di Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo. E tuttavia non è la neve la principale avversità dei poveri cristi col bestiame a cielo aperto cui guardano anche le imprese turistiche fuori dal cratere che vivono della ricchezza dell’agroalimentare (si parla di danni indiretti incalcolabili), ma l’inarrestabile liturgia del moloch burocratico.

Acquasanta Terme (Ap), Pieve Torina (Macerata), Arquata del Tronto (Ap). Tempi eccessivamente lunghi nella costruzione di strutture temporanee, stalle e fienili, e degli allacci di acqua e corrente, assenza di sopralluoghi che rallentano le autorizzazioni, incertezze per i risarcimenti. Commi e articoli non conoscono la grammatica della realtà e delle evidenze in tutto il cratere, ma è nelle Marche che le strade lastricate di buone intenzioni portano dritte all’inferno. Dopo il primo sisma era previsto il montaggio di 96 moduli zootecnici, 69 dei quali stalle. La Regione Marche si era accodata alla gara d’appalto gestita dal Lazio, vinta da una ditta che avrebbe dovuto provvedere alla consegna degli stessi entro il 9 gennaio, previa realizzazione delle piazzole da parte degli agricoltori.

Grazie alla macchina della solidarietà le piazzole erano pronte ai primi di dicembre; tuttavia ad oggi sono stati montati solo 59 moduli e solo quattro di questi sono funzionanti e possono ospitare gli animali. Mancano gli allacci a luce e acqua, devono pensarci i Comuni, ma sono oltre un centinaio le municipalità colpite dai crolli all’indomani del terremoto del 30 ottobre. Istituita una commissione di inchiesta, la Regione Marche il 7 febbraio rende noto di avere predisposto gli atti per la risoluzione del rapporto con la ditta aggiudicataria prevedendo di affidare i lavori alla seconda classificata. Nel frattempo, dopo le scosse di ottobre, il numero di moduli necessari sale a circa 300 e viene caldeggiata ai produttori agricoli la possibilità di provvedere direttamente all’acquisto di strutture temporanee “similari” a quelle poste in gara ai sensi dell’ordinanza 5 prevista dal commissario per la ricostruzione Vasco Errani, pubblicata in gazzetta il 5 dicembre. Qui le difficoltà aumentano per i marchigiani, le stalle provvisorie devono durare anni; non solo è difficile ottenere una valutazione di fattibilità in base a terreno, funzionalità e durata delle attività quotidiane, ma nella modulistica – nota Coldiretti – la parola “similari” crea restrizioni e comporta una ricerca di ditte fornitrici non sempre agevole, non sono chiari costi, materiali e caratteristiche tecniche e non vi sono indicazioni di intervento per gli allevamenti di bovini da latte, suini, equini, avicoli. Morale: solo un’ottantina di operatori provvederà da sé in autonomia, il resto aspetterà ancora la Regione.

E intanto le bestie? Giulio Massi è terremotato dal 24 agosto a Pomaro di Acquasanta Terme, nell’Ascolano, ed è uno dei pochi ad aver ricevuto una delle “stalle” temporanee della ditta aggiudicataria. Quando mai: «Ci posso mettere le trote, le anguille», la neve che per giorni aveva bloccato le strade si sta sciogliendo, la tensostruttura è completamente allagata, piove dentro, manca la luce, manca l’acqua. Massi non ha più Cristi da tirare giù dalla croce, lascia le sue oltre 40 pecore nella stalla terremotata, sa che potrebbe venire giù tutto con lui sotto, «ma a chi importa?». Alla sua rabbia fanno eco gli allevatori di ogni zona, le tende (questo sono le famose stalle provvisorie) non rispettano i criteri di sicurezza e di benessere degli animali, i tubolari arrugginiscono in fretta, sotto il peso della neve si sono danneggiate subito, «dovrei mettere qui, con i fermi e gli attacchi che non si chiudono ai lati le mie trecento pecore per farle divorare più facilmente dai lupi?», chiede Stefano Angeli, uno che dorme da mesi in roulotte a Pieve Torina, nel Maceratese, uno che già perse tutto nel terremoto del ’97.

Una cinquantina di chilometri più sotto sono caduti oltre tre metri di neve e la stalla di Anselmo Ortenzi, ad Arquata del Tronto, resta in zona rossa. Lui e la moglie, anche loro sfollati della prima ora a Spelonga, fanno i pendolari tutti i giorni «ma la Salaria spesso è interrotta, e mentre lassù le bestie pascolano a cielo aperto, noi ogni giorno ci chiediamo quante ne troveremo morte di stenti».

Abruzzo. I danni subiti dalle aziende agricole e dalle stalle ammontano a 52 milioni. Quindici milioni la stima presunta dei danni, diretti e indiretti, al settore ovicolo con un milione di piante abbattute dalla neve. Dal pecorino di Farindola al caciocavallo abruzzese, dalla mortadella di Campotosto al caciofiore aquilano, dalla scamorza abruzzese alla ventricina teramana fino ad arrivare al salame Aquila, sono a rischio specialità e migliaia di posti di lavoro. La denuncia arriva da avicoltori e allevatori che si sono riuniti il 13 febbraio nell’azienda agricola San Vincenzo (Salumieri di Castel Castagna) a Basciano, provincia di Teramo, dove sono morte tremila bestie, quattro i capannoni sventrati. Coldiretti spinge perché venga applicata l’ordinanza “azzeraburocrazia” che autorizza gli allevatori a comprare tutto ciò che serve per garantire la continuità produttiva delle proprie aziende a fronte di un rimborso pubblico previsto fino al 100 per cento delle spese sostenute.

Nel frattempo la solidarietà corre lungo tutti i canali. A Prima Pagina, su Radio 3, il direttore del nostro giornale ha ricevuto decine di segnalazioni (che hanno permesso di incrociare domanda e offerta di stalle mobili nelle zone disastrate). Ma anche tante, straordinarie testimonianze.

Norcia. Il 5 dicembre Carlo Catanossi, presidente del gruppo Grifo Alimentare, riceve la menzione speciale del Premio volontariato internazionale 2016 promosso dalla Focsiv. La storia di Catanossi è pazzesca, ed è quella di una vera comunità resiliente e capace di presidiare il posto di ciascuno sulla terra. Il suo stabilimento di Norcia – gli altri due sono a Colfiorito di Foligno e Ponte San Giovanni (Perugia) –, non ha mai interrotto le attività garantendo la raccolta e la trasformazione del latte tra immani difficoltà, dando lavoro e speranza alle famiglie colpite dal terremoto.

«Abbiamo decine e decine di produttori provenienti da Amatrice, Leonessa, dalla zona di Norcia fino a Cascia. Fin dal primo sisma, con le strade bloccate, abbiamo messo a disposizione dei dipendenti provenienti da Amatrice la nostra foresteria. Il 30 ottobre fu colpita Norcia e tantissimi produttori persero stalla e abitazione. Li raggiungemmo lo stesso, con le ruspe e i mezzi dell’esercito, andammo da chiunque producesse latte, anche chi non era socio, e il giorno dopo lavorammo come sempre 600 quintali di prodotto. Sistemammo altre famiglie in foresteria, oggi nel piazzale dello stabilimento abbiamo cinque roulotte e due casette di legno, le abbiamo agganciate all’impianto elettrico e al depuratore», racconta Catanossi, che da queste parti è già diventato l’eroe, quel volto umano di una solidarietà che non è fatta di slogan ma di un rapporto vitale fra l’uomo e la terra. Anche il suo stabilimento è stato danneggiato, «sono saltati gli impianti, le celle frigorifere, due silos e 300 quintali di latte sono andati in gloria così come 150 quintali di prodotto a riposo sulle griglie mobili. Abbiamo riparato i guasti, il giorno dopo la produzione marciava a pieno ritmo».

Catanossi inizia a comprare latte da tutti, Norcia, Amatrice, Leonessa, Preci, Sellano, Serravalle del Chienti, Foligno: risale le fratture del terremoto, compra a prezzo maggiorato di 3 o 4 centesimi, anticipa ai produttori una mensilità con la possibilità di restituirla in tre anni senza oneri. E con il latte raccolto inizia a produrre la “Caciotta della solidarietà” che grazie ai mercati di Campagna Amica e alla collaborazione di Coldiretti, è stata venduta in tantissime città d’Italia e ha permesso alle imprese agricole di non interrompere la propria attività. E così, nell’emergenza, non è stata buttata via neanche una goccia di latte. «Nell’arco di trecento metri ho visto stalle distrutte, stalle intatte, stalle che possono essere recuperate. Si cerca di dare una logica alla ricostruzione ma di tempo ne abbiamo perso già troppo, la gente non ne ha più. Sono stato a Sommati, piccola frazione di Amatrice, un nostro allevatore ci ha accompagnato sulle rovine del borgo dove abitava prima di trasferirsi in un container vicino alle sue vacche da latte. Raccontava il panorama contando il numero dei morti, “lì ne hanno trovati 22, vicino alla fontana 7…”. Ho vissuto il terremoto in Irpinia e mi chiedevo se la terra potesse divorare anche la speranza. Abbiamo raccolto il latte e siamo ripartiti».

Cala la sera e adagiate sul manto bianco della neve, scoperte tra cielo e terra, per le bestie del suo allevatore, le pecore di Massi, Angeli, Ortenzi, inizia una nuova notte. Qualche bestia partorirà, qualcun’altra verrà divorata dai lupi. A Brescia, Enrico Bettoni guarda i suoi camion carichi di fieno e aspetta solo di poter ripartire per Teramo, per continuare ad onorare quel patto con la natura vivente che da secoli genera e divora il crescere umile della dorsale rurale d’Italia. Terra di terremoti e di vulcani che non conosce le liturgie della burocrazia e crede solo nella fede solida e indiscussa di un popolo capace di promettere «da qui non ce ne andremo».

Foto Ansa

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