Tanti hanno mangiato l’agnello e il coniglio a Pasqua, con buona pace degli animalisti e della Brambilla


Pubblichiamo la rubrica di Annalisa Teggi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Nonostante gli ammonimenti di Michela Vittoria Brambilla, temo che qualcuno abbia mangiato l’agnello durante le festività pasquali. E forse anche del coniglio, non solo di cioccolato. La proposta dell’onorevole di multare chi mangia carne di coniglio e la sua idea di fare un pranzo pasquale vegetariano «cruelty free», cioè senza infliggere crudeltà agli animali, mi hanno fatto ripensare alla mia infanzia. Sono cresciuta osservando un nonno contadino che si spaccava la schiena tra campi e stalla. Seminava e raccoglieva. Potava e faceva il vino. Mi ha insegnato a prendere le uova dalle galline senza spaventarle. Puliva tutti i giorni le stie e la stalla. Quando andava ad ammazzare qualche bestia non mi portava con sé, è vero. Lo aspettavo in cucina con mia nonna, che a sua volta mi ha insegnato a fare il brodo, con le verdure e la carne dei nostri animali.

Non ho mai scambiato i miei nonni per mostri sanguinari. Anche se ammazzavano bestie. Capisco però una parte del ragionamento della Brambilla: esiste senz’altro uno snaturato sfruttamento degli animali, che deriva da un allevamento intensivo e mirato a lucrosi scopi commerciali. Credo altresì che esistano vegetariani premurosissimi verso gli animali, che non hanno mai sentito, neanche da lontano, quanto puzza una stalla. Chesterton parlò di una certa signora che storceva il naso quando le si ricordava che il latte proviene dalla mucca sporca e non dal negozio pulito. Eccoci, siamo noi: consumatori passivi, anelli inerti di una grande catena consumistica.

Un grande scrittore e contadino contemporaneo, Wendell Berry, ha messo a fuoco questa nostra debolezza moderna nel suo libro Mangiare è un atto agricolo: «Gli uomini comprano ciò che desiderano, o ciò che sono stati convinti a desiderare; e pagano il prezzo richiesto, senza protestare». In questo circolo puramente consumistico «mangiatore e mangiato sono esiliati dalla realtà biologica. Il risultato è una sorta di solitudine del tutto nuova nell’esperienza umana, dove chi mangia può pensare che mangiare sia una transazione puramente commerciale tra sé e il fornitore, e poi tra sé e il cibo». E Berry usa la parola giusta: solitudine, che a noi si mostra nella sua veste più velenosa, quella di un isolamento dalla percezione della realtà delle cose. Da soli, a tavola, con una busta di insalata preconfezionata ci sentiamo fieri di non essere stati crudeli verso un vitello. Ma cosa ci perdiamo? La memoria della nostra creaturalità, che – da sempre – è dentro un sacro cerchio di vita e morte.

Ci siamo ridotti a usare il cibo, perciò ci pare crudele «consumare» la vita di un coniglio. Ma la verità è quella del contadino, che non consuma bensì mangia, e così facendo compie quell’atto di estrema umiltà che è la gratitudine. Così Berry: «Per alcuni l’idea di nutrirsi di una creatura vicino a noi è un gesto sanguinario, o peggio. Io penso che significhi alimentarsi con comprensione e gratitudine. Una parte importante del piacere di mangiare nasce dalla consapevolezza delle vite e del mondo da cui proviene il nostro cibo. In questo piacere sperimentiamo e celebriamo il nostro debito e la nostra gratitudine, perché la nostra vita nasce dal mistero, da creature che non abbiamo creato e forze che non sappiamo comprendere».

@AlisaTeggi

Foto Ansa

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