«Svegliamoci dal cinismo: non esiste un diritto all’eutanasia»

«Il Parlamento impedisca la legalizzazione del suicidio assistito». L'intervento del presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, al convegno «Eutanasia e suicidio assistito. Quale dignità della morte e del morire?»

Pubblichiamo il discorso, tratto dall’Osservatore Romano, che il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha tenuto oggi a Roma al convegno «Eutanasia e suicidio assistito. Quale dignità della morte e del morire?». Il dibattito riguarda la necessità del Parlamento di legiferare sul fine vita in seguito al caso Cappato. In assenza di una legge, infatti, la Corte costituzionale potrebbe il 24 settembre dichiarare incostituzionale l’articolo 580 del codice penale, che punisce chi aiuta o istiga una persona al suicidio, aprendo la strada alla legalizzazione dell’eutanasia in Italia.

Il suicidio assistito è inteso dai suoi promotori come un diritto da assicurare a chi sia irreversibilmente malato e come un’espressione di libertà personale. Necessaria e sufficiente sarebbe la manifestazione del desiderio del soggetto di non proseguire la propria esistenza, intenzione alla quale si dovrebbe dare seguito e attuazione. Da parte nostra affermiamo con forza che, anche nel caso di una grave malattia, va respinto il principio per il quale la richiesta di morire debba essere accolta per il solo motivo che proviene dalla libertà del soggetto. Ugualmente, va confutato il presupposto che quella di darsi la morte sia una scelta di autentica libertà, poiché la libertà non è un contenitore da riempire e assecondare con qualsiasi contenuto, quasi la determinazione a vivere o a morire avessero il medesimo valore.

La volontà di togliersi la vita, anche se attraversata dalla sofferenza e dalla malattia, rivela una mentalità diffusa che porta a percepire chi soffre come un peso. Il malato diventa un peso per la famiglia, le cui maglie si allargano e il cui abbraccio nel nostro contesto sociale diventa fatalmente meno capace di sostenere chi è più debole. Il malato sperimenta, poi, di essere un peso perché l’assistenza assume un volto sempre meno umano e sociale; sulla bilancia dei costi e dei benefici, la cura di cui ha bisogno diventa sconveniente e gravosa. È drammatico che la condizione di chi è meno autonomo sia percepita come una zavorra per la famiglia, per la società e per la comunità dei “forti”. A bene vedere, questa visione si fonda su un presupposto utilitaristico, per il quale ha senso solo ciò che genera piacere o qualche forma di convenienza materiale. Dobbiamo guardarci dall’entrare anche noi, presto o tardi, nel vortice dell’indifferenza. Svegliamoci dal cinismo economicista che genera una mentalità che guarda solo all’efficienza. Circondiamo i malati e tutti i più deboli dell’amore del quale, come ogni essere umano, hanno bisogno per vivere. Facciamo sentire che il peso che portano non diventa un ostacolo per chi li circonda, ma genera in noi la prossimità e la cura.

Ogni persona ha una necessità costitutiva di relazione con gli altri e può realizzarsi solo nel dono di sé e nell’apertura al prossimo. Siamo persone, non semplici individui, e nessuno ha solo la capacità di dare o di ricevere, ma tutti diamo e riceviamo al contempo. La stessa malattia, se vissuta all’interno di relazioni positive, può assumere contorni molto diversi e fare percepire a chi soffre che egli non solo riceve, ma anche dona. Anche per il malato sottrarsi a questo reciproco scambio sarebbe un atto di egoismo, un sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare. Ecco allora la base sulla quale va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente. Porta molta consolazione il riconoscere che la vita, più che un nostro possesso, è un dono che abbiamo ricevuto e dobbiamo condividere, senza buttarlo, perché restiamo debitori agli altri dell’amore che dobbiamo loro e di cui hanno bisogno.

La logica utilitarista porta rapidamente a una crisi del diritto stesso, il quale si vede trasformato in mera convenzione, in arbitrarietà e accordo tra le parti, invece che essere il mezzo per promuovere i valori umani. La crisi giuridica emerge con evidenza nel passaggio istituzionale al quale stiamo assistendo, apparentemente avvitatosi in un percorso senza sbocchi, ma in realtà orientato, sottotraccia, all’approvazione di principi lesivi dell’essere umano. Incaricato dalla Corte costituzionale di legiferare attorno alle questioni dell’eutanasia e della morte volontaria, il Parlamento si è limitato a presentare alcune proposte di legge, senza pervenire né a un testo condiviso, né ad affrontare in modo serio il dibattito. Ora, per evitare che una sentenza della Consulta provochi lo smantellamento del reato di aiuto al suicidio, il Parlamento dovrebbe in breve tempo poter discutere e modificare l’articolo 580 o, comunque, avviare un iter di discussione della legge che potrebbe indurre la Corte stessa a concedere un tempo supplementare.

La via più percorribile sarebbe quella di un’attenuazione e differenziazione delle sanzioni dell’aiuto al suicidio, nel caso particolare in cui ad agire siano i familiari o coloro che si prendono cura del paziente. Questo scenario, tutt’altro che ideale, sarebbe comunque altra cosa rispetto all’eventualità di una depenalizzazione del reato stesso. Se si andasse nella linea della depenalizzazione, il Parlamento si vedrebbe praticamente costretto a regolamentare il suicidio assistito. Avremmo allora una prevedibile moltiplicazione di casi simili a quello di Noa, la ragazza olandese che ha trovato nel medico un aiuto a morire, anziché un sostegno per risollevarsi dalla sua esistenza tormentata. Casi come questi sono purtroppo frequenti nei paesi dove è legittima la pratica del suicidio assistito.

L’approvazione del suicidio assistito nel nostro paese aprirebbe un’autentica voragine dal punto di vista legislativo, ponendosi in contrasto con la stessa Costituzione italiana, secondo la quale «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», il primo dei quali è quello alla vita. Tale contrasto segnerebbe dal punto di vista giuridico un passaggio irreversibile, con enormi conseguenze sul piano sociale. Non ci vuol molto per immaginare che si darebbe il via a un piano inclinato: diverrebbe sempre più normale il togliersi la vita e ciò potrebbe avvenire di fatto per qualunque ragione e, per di più, con l’avallo e il supporto delle strutture sanitarie dello Stato. L’eventualità di togliersi la vita rappresenterebbe in apparenza una via di fuga che assicura libertà, ma in realtà verrebbe a determinare una terribile incertezza: se sia più conveniente rinunciare all’esistenza o proseguirla.

L’introduzione dell’eutanasia aprirebbe anche ad altri scenari: indurrebbe a selezionare, mediante la formulazione di appositi parametri sanciti dallo Stato, chi debba essere ancora curato e chi non ne abbia il diritto. Il caso di Charlie, il piccolo britannico al quale è stata negata, contro il parere dei genitori, l’opportunità delle cure, rappresenta in tal senso un caso emblematico. Siamo una società che già seleziona e stabilisce chi tra gli esseri umani sia anche persona e porti o meno il diritto di nascere e di vivere: i più indifesi sono già eugeneticamente selezionati e in una grande percentuale non sono fatti nascere se portano qualche malattia o malformazione. Le leggi di cui temiamo l’approvazione non farebbero che ampliare tale obbrobrio, rendendo la vita umana sempre più simile a un oggetto e sempre più soggetta alla regola del consumismo: si usa e si getta. La Chiesa è chiamata a rendere testimonianza ai valori evangelici della dignità di ogni persona e della solidarietà fraterna. Nel quadro della nostra società, spesso smarrita e in cerca di un senso e di un orientamento, la Chiesa questi valori deve viverli, facendo anche sentire la propria voce senza timore, soprattutto quando in gioco ci sono le vite di tante persone deboli e indifese.

Foto Ansa

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