Stefano Zecchi: «Celentano farà beneficenza perché è un moralista e vuole redimersi»

Celentano fa un passo indietro e annuncia che l'intero compenso percepito per la sua partecipazione al Festival di Sanremo andrà in beneficenza. Per Stefano Zecchi l'annuncio del Molleggiato è solo frutto di un'ottima strategia di marketing: «E comunque tutti questi soldi glieli darei per sentirlo cantare, non parlare»

Ha fatto clamore la notizia che Adriano Celentano, a seguito delle polemiche suscitate dal suo cachet per la sua partecipazione al prossimo Festival di Sanremo, abbia alla fine deciso di devolvere l’intera cifra in beneficenza. Alla notizia dell’annuncio “celentanesco”, Morandi ha esclamato: «Adriano è il nostro Tevez!». Don Vinicio Albanese, prete impegnato nel recupero sociale degli emarginati, ha invece denunciato che quello dell’(ex) molleggiato è «Un gesto diabolico, perché ci si costruisce uno spettacolo, non si possono mettere insieme spettacolo e povertà». Senza giudicare le intenzioni del personaggio in questione, sovrapporre solidarietà e marketing, in maniera così clamorosa, non si rischia il cortocircuito? «Il rischio è sempre presente» risponde il prof. Stefano Zecchi, ordinario di Estetica all’Università degli Studi di Milano. «Ovunque il marketing mette il naso, riporta la situazione a proprio vantaggio». 

In materia di beneficenza al cattolico Celentano bisognerebbe ricordare il passo del Vangelo, in cui si consiglia: «Non sappia la mano sinistra di ciò che fa la destra».
Da sempre cogliamo l’immagine e la comunicazione attraverso la nostra cultura e attraverso di essa interpretiamo il fenomeno come pura comunicazione o come fatto concreto. In questo caso c’è stata una grandissima abilità, figlia innanzitutto di una furbizia ipocrita. Ricordiamo che Benigni, per una sua partecipazione sempre al Festival sanremese, fece un’operazione simile, ma se ne stette zitto. Insomma si potrebbe dire: «Excusatio non petita, accusatio manifesta» (Scusa non richiesta, accusa manifesta, nrd). Tutti quei soldi per un moralista sono troppi, allora si cerca una fuga altrettanto moralista dichiarata ai quattro venti proprio per redimersi dal “peccato”.

È il personaggio dello spettacolo che sa di vivere in un mondo dorato e in questo modo “si sporca” con i problemi del popolo?
Il problema è come percepiamo il valore del denaro nell’attività di tipo artistico: in genere il nostro moralismo ci porta a dire che il denaro guadagnato in questo modo è sempre fuori norma, fuori regola, proprio perché di regole non ne ha. Perché un quadro di Andy Wharol deve valere una cifra che io non guadagno in tutta una vita di professore universitario? Queste sono domande lecite in una società libera, perché inevitabilmente destano sconcerto: un operaio che si alza alle cinque tutte le mattine per andare a fare un lavoro alienante vede con un certo disprezzo chi, mettendosi a cantare, guadagna fior di soldi.

Probabilmente dopo questo gesto avrà carta bianca sugli argomenti dei suoi famosi monologhi.
Questo è il prezzo che dobbiamo pagare: a me Celentano piace quando canta, non quando parla. Diamogli quei soldi non per parlare ma per cantare.

Questa storia del Celentano “predicatore” dura da molto tempo
Si è messo a parlare perché, evidentemente, milioni di persone apprezzano quello che dice, cattura la loro attenzione. A parte il vezzo di Celentano che dice: «Io parlo semplice e vengo capito» c’è un problema in chi ascolta. Tante e tali sono le banalità che dice che uno pensa che se ne potrebbe fare anche a meno. È un meccanismo comunicativo, ti viene da pensare che il mondo colto e politicamente impegnato afferma banalità che sono ancora superiori a quelle del Molleggiato. Altrimenti non si capirebbe come lui sia diventato un guru del pensiero: è sempre una questione legata a una relazione comunicativa.

Questa vicenda conferma la confusione che regna nei piani alti della Rai?
Si, totale. Rispecchia il “casino” mentale che c’è nel pubblico televisivo. Si enfatizzano sempre quei sei, sette, otto milioni che guardano queste trasmissioni pensando che sia un audience enorme. Ma insomma, siamo sessanta milioni di abitanti ed è un po’ esagerato e illusorio pensare che l’audience Rai sia lo specchio dell’Italia. Perché quei milioni devono essere, con il loro ascolto, quelli che decretano la grandezza comunicativa di Celentano e per di più giustificano la cifra che gli viene accordata? Questo è “il casino” generale: si privilegia una parte per giustificare le proprie azioni. Se si ammettesse la realtà e cioè che esiste una maggioranza di persone che quella trasmissione non la guarderanno perché hanno altri interessi, probabilmente tutto ritornerebbe a una giusta proporzione. Celentano non avrebbe l’ipocrisia di annunciare che dà in beneficenza quei settecentomila e passa euro e se li metterebbe in tasca.

Ma la Rai aveva proprio bisogno di questa vicenda per promuovere Sanremo? Non c’è una competizione televisiva esasperata?
Pare che sia sempre un problema di vita o di morte. Questa visione dei dirigenti televisivi è anche indotta da una realtà sociale che enfatizza il prodotto televisivo, in altri paesi europei questo non succede. La televisione diventa “la politica”, “la cultura”, “lo spettacolo”. Ma siamo noi che lo decretiamo. Mettiamola così: c’è un bel concorso di colpa, che è figlio della nostra educazione.

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