La selva oscura e il bene che Dante vi ha trovato

Pubblichiamo il XIV capitolo del libro Tre giorni all’Inferno. In viaggio con Dante, Ares edizioni

Incipit Comedìa Dantis Alagherii, Florentini natione, non moribus. Questo è, in realtà, il titolo di una delle opere più grandi celebrate nella storia della letteratura. «Comedìa» (o «commedia» nel linguaggio odierno) allude al genere letterario del capolavoro, caratterizzato sia dall’inizio difficile e dalla conclusione felice che dalla commistione di linguaggi e di toni eterogenei. Questo almeno spiega Dante nella Epistola che invia a Cangrande della Scala. L’aggettivo «divina» viene aggiunto più tardi da un’altra Corona fiorentina, quel Giovanni Boccaccio che intende così distinguere la sua commedia «umana», il Decameron, da quella ben più alta e celestiale dantesca, che oltre a rappresentare il Cielo dalla Terra riesce a descrivere la terra sub specie aeternitatis, cioè dal punto di vista dell’eterno.

Vogliamo offrire solo un’avvertenza per la lettura. Non bastano l’apparato critico, le note, la parafrasi. Dante ci ha avvisato nel Convivio che un’opera di carattere sacro deve essere letta su quattro livelli: il letterale, l’allegorico, il morale e l’anagogico. Troppo spesso ci si limita nelle scuole a capire la lettera del testo dantesco e l’allegoria (il significato nascosto), senza la preoccupazione di intendere quello che Dante scrive per la nostra felicità (significato morale) e per la nostra salvezza (livello anagogico). Per ritornare a leggere la Commedia occorre un io che sia risvegliato e assetato di domanda di vita e di significato, che sia desideroso di «divenire del mondo esperto/ e de li vizi umani e del valore», che riscopra che la natura umana non è fatta come quella delle bestie, ma «per seguir virtute e canoscenza».

L’avventura che proporremo in questi capitoli sarà quella di seguire Dante nella proposta del viaggio della vita. Siamo a Gerusalemme, considerata all’epoca al centro dell’ecumene, tra le colonne d’Ercole (stretto di Gibilterra) e il Gange. L’alba del 25 marzo o del 7 aprile è il momento in cui inizia la storia di Dante nella selva oscura: il 25 marzo è il venerdì santo per eccellenza (quello in cui la morte di Cristo coincide con l’incarnazione), l’8 aprile è, invece, la data del venerdì santo nel 1300. Il viaggio si dispiega per un’intera settimana tra i tre regni.

Nel 1300, anno del Giubileo, all’età di trentacinque anni, Dante si trova a metà della sua vita («in dimidio dierum meorum» si legge nel Libro di Isaia). Ha raggiunto tutti gli obbiettivi, si è sposato, ha avuto dei figli, ha già ottenuto una prima fama letteraria, sta facendo carriera politica tanto che otterrà in pochi mesi il priorato di giustizia. Eppure, tutte queste gratificazioni non gli bastano, non lo rendono felice. Senza sapere neppure in che modo il Fiorentino entra in una crisi profonda. Scrive al riguardo: «Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,/ tant’era pien di sonno a quel punto/ che la verace via abbandonai».
Ma proprio in quella selva «selvaggia e aspra e forte» Dante troverà il bene. In maniera geniale («per trattar del ben ch’i’ vi trovai») lo scrittore riflette sul fatto che anche la circostanza più negativa, anche il peccato più bieco dell’uomo sono l’occasione per incontrare la risposta, per scoprire il senso, per essere salvati. Se una persona va in profondità delle circostanze incontra quell’«amor che move il sole e l’altre stelle». La condizione di perdita di senso, di crisi in cui vive Dante è così amara che è molto simile alla morte.

Tutti noi nella vita, come Dante all’inizio della cantica dell’Inferno, abbiamo pensato di poter fare a meno di un maestro, vorremmo contare solo sulle nostre forze e sulle nostre energie e salire da soli quel «colle luminoso» che vediamo davanti a noi, che rappresenta la via buona, la verità. Ciascuno di noi ha una ragione che gli permette di distinguere il bene dal male («lume a bene e a male» dirà Dante nel canto XVI del Purgatorio) e, nel contempo, ha quel peccato originale che lo porta a voler essere autonomo. Dante inizia, così, a salire da solo. Guardate il suo realismo nel descrivere quest’azione: «’l piè fermo sempre era ‘l più basso». «Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,/ una lonza leggiera e presta molto,/ che di pel macolato era coverta» si presenta davanti a Dante. La prima bestia rappresenta la lussuria. La dolce stagione della primavera e l’alba fanno ben sperare Dante. Ma la comparsa prima di un leone (la superbia) e poi della lupa (la cupidigia) risospinge il poeta «là dove ‘l sol tace». Un imprevisto è la sola speranza, l’incontro gratuito e insperato che ci salva la vita. Scrive il sommo poeta: «Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,/ dinanzi a li occhi mi si fu offerto/ chi per lungo silenzio parea fioco».

Quel verbo «offerto» indica che in quella situazione di crisi e di difficoltà viene donato al Dante viator un incontro imprevisto, immeritato, gratuito. Non sono i suoi meriti, le sue capacità a salvarlo. Ciò che lo salva è la sua capacità di domandare aiuto, la sua mendicanza che subentra all’iniziale desiderio di totale autonomia tanto che grida: «Miserere di me  […]/ qual che tu sii, od ombra od omo certo!». Dante non sa di avere davanti a sé proprio la persona che stima maggiormente e che è stata per lui un modello per la vita e per la poesia. Come chi si trovasse in un bosco cercherebbe all’inizio di uscire da solo e, poi, con il trascorrere del tempo e il calare delle tenebre si metterebbe a gridare, altrettanto fa Dante.

Con una spettacolare agnizione Virgilio svela la sua identità sciorinando particolari della sua vita gradualmente: «[…] Non omo, omo già fui,/ e li parenti miei furon lombardi,/ mantoani per patrïa ambedui./ Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,/ e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto/ nel tempo de li dèi falsi e bugiardi./ Poeta fui, e cantai di quel giusto/ figliuol d’Anchise che venne di Troia,/ poi che ‘l superbo Ilïón fu combusto». In pratica Virgilio rivela di essere vissuto all’epoca dell’Imperatore Augusto, quando ancora non si era compiuta la rivelazione, di essere stato poeta e di avere scritto l’Eneide. Virgilio nel Medioevo è percepito come un profeta, poiché ha anticipato l’avvento di Cristo nella IV egloga: «Nasce da capo un grande ciclo di secoli;/ già torna la Vergine (e) ritornano i regni di Saturno,/ già una nuova progenie viene mandata dall’alto del cielo./ […] Tu, o casta Lucina, sii favorevole al bambino che ora nasce/ con cui per la prima volta cesserà la generazione del ferro/ e in tutto il mondo nascerà quella (lett.: la generazione) dell’oro: /[…] Egli riceverà la vita degli dei e vedrà gli eroi mescolati agli dei,/ ed egli stesso sarà visto con loro». Sappiamo, in realtà, che il poeta mantovano non si riferiva in quei versi alla nascita di Gesù.

A questo punto, dopo aver svelato la sua identità, Virgilio invita Dante a riconoscere in maniera consapevole di avere bisogno di aiuto: «Ma tu perché ritorni a tanta noia?/ perché non sali il dilettoso monte/ ch’è principio e cagion di tutta gioia?». Ovvero gli domanda perché non salga da solo il monte da cui deriva ogni felicità (il colle luminoso).

Ogni giorno, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo mendicare, prendere coscienza che da soli non ce la possiamo fare. Dobbiamo riconoscere la necessità di un aiuto e di una compagnia. Ma stiamo attenti. Dante non si sceglie lui il maestro, si imbatte in maniera imprevista e gratuita in qualcuno. Dante dovrà riconoscere l’autorevolezza di Virgilio, chiamarlo «autore, maestro e duce». L’autorità non è pretesa dal maestro, ma riconosciuta dal discepolo. Noi percepiamo l’autorità di qualcuno quando avvertiamo che quegli ha la capacità di dire qualcosa di importante sulla nostra vita (è quindi autorevole) e sa valorizzare il nostro io e i nostri talenti. Noi ci fidiamo dei suoi giudizi e dei suoi consigli, ma, nel contempo, continuiamo a sentire la bellezza e la drammaticità della nostra libertà. Il maestro, infatti, scommette e sollecita la libertà dell’allievo, non la mortifica. Ebbene il lungo percorso di accompagnamento di Virgilio attraverso l’Inferno e il Purgatorio avrà termine sulla montagna del Paradiso terrestre. Il poeta latino, infatti, ad un certo punto ha adempiuto al suo compito, una volta portato Dante all’incontro con Beatrice. Allora il maestro sa farsi da parte, quando ha adempiuto alla sua missione. Non ha voluto legare a sé in maniera narcisistica il discepolo, ma al contrario gli ha indicato il bene per la sua vita e lo ha accompagnato per un tratto del percorso dell’esistenza. Virgilio ha portato Dante verso le stelle, verso il compimento del suo desiderio.

Il vero maestro conduce al bene, non ferma il discepolo su se stesso in maniera idolatrica. Questa è la differenza tra il maestro e l’idolo. Quanti idoli vengono creati nell’epoca contemporanea ad uso e consumo dei più giovani! Essi non indirizzano mai alla verità, che svelerebbe tutta la loro inconsistenza, ma si presentano come risposta al desiderio di felicità del cuore dell’uomo. Stiamo, quindi, attenti alle figure di falsi maestri che incontriamo sulla strada. Molti si nascondono sotto parvenze di bontà e false promesse per irretire le nostre coscienze e impadronirsi dei nostri cuori. Il vero maestro non sprona i discepoli a soffermarsi su di lui, ma li indirizza al bene, indica loro la strada, la verità. Come descrive bene questo atteggiamento Antoine de Saint Exupery nella Cittadella quando scrive: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini. Ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Nella stessa opera compare la figura del capo che istruisce i generali spronandoli ad essere pienamente uomini mantenendo vivo il desiderio. Confessa loro: «Voi non vincerete perché cercate la perfezione. […] Voi proibite gli errori e per agire attendete di conoscere se la mossa che si vuol tentare è di un’efficacia chiaramente dimostrata […]. La torre, la roccaforte o l’impero crescono come l’albero. Esse sono manifestazioni della vita in quanto è necessario che ci sia l’uomo perché nascano. E l’uomo crede di calcolare. Crede che la ragione governi l’erezione delle sue pietre, quando invece la costruzione con quelle pietre è nata dapprima dal suo desiderio. La roccaforte è racchiusa in lui, nell’immagine che porta nel cuore, come l’albero è racchiuso nel seme. I suoi calcoli non fanno altro  che dare forma al suo desiderio e illustrarlo. Perché voi non spiegate l’albero se mettete in evidenza l’acqua che ha succhiato, i succhi minerali che ha assorbito e il sole che gli ha prestato la sua forza. […] Voi perderete la guerra perché non desiderate nulla».

Il vero maestro sollecita nel cuore dell’uomo il desiderio dell’infinito e dell’eternità. Di fronte a Virgilio Dante manifesta un debito di gratitudine: «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte/ che spandi di parlar sì largo fiume?/ […]O de li altri poeti onore e lume,/ vàgliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore/ che m’ha fatto cercar lo tuo volume./ Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore,/ tu se’ solo colui da cu’ io tolsi/ lo bello stilo che m’ha fatto onore». Questa è la posizione davvero umana, la mendicanza: «Vedi la bestia per cu’io mi volsi:/ aiutami da lei, famoso saggio,/ ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

A questo punto, solo dopo che Dante si è messo a piangere, Virgilio gli propone di seguirlo: «A te convien tenere altro vïaggio […]/ se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;/ […] io per lo tuo me’ penso e discerno/ che tu mi segui, e io sarò tua guida». Il viaggio che intraprenderanno non sarà, però, quello che aveva in mente Dante, in direzione del colle luminoso. Si dovrà prima guardare in faccia il male proprio e altrui nell’Inferno, poi si attraverserà il Regno delle anime purganti, solo più tardi si potrà vedere la beatitudine dei santi del Paradiso. Una volta incontrato il maestro, sembrerebbe tutto facile per Dante. In realtà, non sarà così. Dopo poche ore, il poeta avrà già cambiato idea e non vorrà più partire.

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