Se neghiamo l’esistenza di un creatore, è inutile che stiamo a discutere di diritti umani inalienabili

È una delle tesi di Tristram Engelhardt, uno dei più importanti bioeticisti del mondo, che terrà oggi un incontro con Gianni Vattimo e Maurizio Mori. «Se Dio non viene riconosciuto come colui che crea gli uomini in un certo senso uguali, come si può dire che gli esseri umani sono uguali? La morale secolare contemporanea è necessariamente contingente»

«Se Dio non viene riconosciuto come colui che crea gli uomini in un certo senso uguali, come si può dire che gli esseri umani sono uguali?». A porre la domanda non è un teologo, ma Tristram Engelhardt, uno dei più importanti bioeticisti del mondo, professore all’Università di Houston e direttore della rivista internazionale Journal of Medicine and Philosophy. La Stampa riporta la sintesi del suo pensiero, anticipando alcuni dei contenuti del dialogo con Gianni Vattimo e Maurizio Mori, che si terrà oggi alle 18 a Torino, in occasione della presentazione del suo ultimo libro, Viaggi in Italia. Saggi di bioetica (Le lettere edizioni, 428 pp., 38 euro).

La tesi del professore texano è che l’uomo, se nega un creatore comune, è destinato ad essere schiavo. È impossibile, sostiene, affermare la cogenza di diritti umani inalienabili e uguali per tutti quando manca un punto di vista metafisico. Engelhardt prende ad esempio Richard Rorty, che ha affrontato il venir meno della morale nel nostro secolo. «Rorty ha riconosciuto il motivo per cui è impossibile fornire una fondazione alla morale» spiega il professore, ricordando che per lui non esistendo un creatore non può esistere neppure un “metavocabolario” comune. Rorty, però, ammette che così «non possiamo stabilire quali siano la morale e la bioetica» e che «non si può neppure affermare la priorità morale di una comunità di individui anonimi nei confronti delle pretese della comunità particolare». L’assenza di un fondamento e di una prospettiva divina da cui l’uomo riconosce di derivare, prosegue Engelhardt, rende indimostrabile l’esistenza di «una priorità razionale cogente della comunità anonima degli individui e della comunità di coloro che amiamo e a cui restiamo fedeli».

Rorty tenta così di legare la morale alla prudenza degli individui, ma fallisce perché «si resta con una pluralità di morali come strutture normative (alcune delle quali rifiutano persino un punto di vista morale) sostenute da discorsi morali differenti, supportati da differenti condizioni socio-culturali». È in questo modo che si cade nella schiavitù del pensiero dominante. Perché «una volta separate dal proprio ancoraggio in Dio, e/o nell’essere, tutte le morali e le bioetiche secolari» diventano «socio-storicamente condizionate», affermando «configurazioni particolari». Il pericolo per il professore è chiaro: «A differenza delle affermazioni di obblighi morali fondati su una comune origine divina, che potrebbero essere riconosciute persino da un ateo come putativamente fondate nell’essere – nonostante l’ateo consideri falsa tale pretesa – la morale secolare contemporanea è necessariamente contingente e storicamente condizionata. Tale sradicamento e tale contingenza hanno implicazioni drammatiche riguardo alla forza delle pretese normative avanzate dalla teoria morale contemporanea dominante di stampo secolare su questioni come il significato morale di autonomia, uguaglianza, diritti umani, giustizia sociale e dignità umana».
Twitter: @frigeriobenedet

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