Chi è Raisi. Il nuovo presidente e (forse) futuro Khamenei dell’Iran

Ultraconservatore, ex presidente della Corte suprema e membro di quella "Commissione della morte" che fece giustiziare fino a 5.000 oppositori del regime. L'elezione di Raisi segna la fine di un'era

L’elezione a presidente dell’Iran dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi sta preoccupando le cancellerie occidentali, Israele e i paesi del Golfo che temono uno sviluppo del programma nucleare iraniano e un nuovo attivismo di Teheran nella regione. Nella sua prima conferenza stampa da presidente, Raisi ha già affermato chiaramente che non permetterà ai colloqui sul rilancio dell’accordo nucleare – in corso a Vienna da aprile – di trascinarsi a oltranza, sottolineando che non vi è al momento alcuna intenzione di incontrare il presidente Usa, Joe Biden.

Il “fallimento” delle elezioni in Iran

Come osservato dalla stampa di Washington, in particolare dal Wall Street Journal, le dichiarazioni di Raisi suonano come una pietra tombale per gli sforzi di Biden di rilanciare la “fase due” dei colloqui sul nucleare che sembrava pronta a decollare negli ultimi mesi di presidenza di Hassan Rohani. Tuttavia, ad un’analisi più approfondita, le dichiarazioni del nuovo presidente appaiono come una retorica scontata per un candidato della sua schiera e mascherano invece la preoccupazione per un fallimento sostanziale delle presidenziali per quanto riguarda la partecipazione popolare, da sempre considerata il vero termometro della situazione interna del Paese, soprattutto in vista di una uscita di scena della guida suprema Ali Khamenei.

Le presidenziali del 18 giugno hanno registrato un’affluenza del 48 per cento, la più bassa dal 1979, un risultato molto distante da quel 73,33 per cento delle elezioni del 2017 in cui venne riconfermato Hassan Rohani. Di particolare importanza per comprendere l’aria che si respira a Teheran è la percentuale di voti considerati nulli, pari a circa il 15 per cento, una sorta di vera e propria “protesta” da parte di personalità ed esponenti di apparati statali che, non potendo disertare le urne, hanno deciso di invalidare volutamente il proprio voto. Alla luce di questo scenario la presidenza di Raisi, che entrerà ufficialmente in carica il 3 agosto, sarà in salita.

Da 600 candidati a sette

Di fatto l’ex presidente della Corte suprema ha vinto con “sole” 17.926.345 preferenze, il 61,9 per cento dei voti, superando nettamente gli avversari: l’ex comandante dell’esercito del Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica, Mohsen Rezaei, secondo con 3.412.712 voti, il riformista ed ex governatore della Banca centrale, Abdolnasser Hemmati, terzo con 2.427.201 preferenze, e Amir Hossein Ghazizadeh-Hashemi, quarto con 999.718 voti.

La vittoria di Raisi è stata costruita con una sapiente operazione di “ingegneria elettorale”, con il Consiglio dei guardiani, il gruppo di religiosi ed esperti che esamina le candidature alle elezioni, che ha escluso dalla corsa tutti i potenziali rivali del capo della magistratura, riducendo da 600 a sette i candidati alle presidenziali. Tra questi anche l’ex presidente del parlamento Ali Larijani, esponente dell’ala moderata, considerato l’unico a poter contrastare in qualche modo la corsa di Raisi alla presidenza.

La trappola tesa dal regime a Zarif

Infatti, il solo che avrebbe potuto realmente sconfiggere Raisi era il ministro uscente degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, artefice della strategia aperturista dell’amministrazione Rohani e fautore dell’accordo sul nucleare del 2015.

Tuttavia, a Zarif è stata tesa una vera e propria trappola con la pubblicazione a fine aprile di una serie di registrazioni “rubate”, parte di una lunga intervista con l’economista iraniano Saeed Leylaz, dove il ministro degli Esteri accusava il defunto generale della Forza Qods dei pasdaran, Qassen Soleimani, di aver minato in molte occasioni le azioni del governo, in particolare lavorando con la Russia per tentare di sabotare l’accordo sul nucleare e compiendo azioni volte a prolungare l’impegno dell’Iran nella guerra in Siria.

Una voce che circola da tempo tra gli esperti di politica iraniana è che se Soleimani non fosse rimasto ucciso nel gennaio 2020 a Baghdad in un raid Usa sarebbe stato lui il principale candidato dei conservatori alle elezioni e si sarebbe scontrato, forse, proprio con lo stesso Zarif. Raisi sarebbe dunque una scelta obbligata per consentire ai conservatori di mantenere saldo il potere, soprattutto quello economico e militare.

La “Commissione della morte”

Noto con l’appellativo onorifico di “hojjatoleslam” (autorità sull’Islam), grado inferiore per prestigio e autorevolezza a quello di ayatollah, Raisi è nato nel 1960 nella città nord-orientale di Mashhad, secondo centro abitato dell’Iran. La sua biografia rappresenta l’immagine dell’uomo dedito alla rivoluzione islamica di Ruhollah Khomeini. Poco dopo la rivoluzione del 1979, Raisi diviene procuratore generale della città di Karaj, vicino a Teheran. La ligia attività come procuratore consente a Raisi, uomo di saldi principi “rivoluzionari”, di fare velocemente carriera fino a raggiungere la carica di viceprocuratore di Teheran nella seconda metà degli anni ’80.

Proprio in questo periodo cresce la sua triste fama, legando il suo nome alla stretta cerchia ribattezzata “Commissione della morte” incaricata di interrogare i prigionieri riguardo alla loro affiliazione politica o religiosa. La sua figura è legata alla sanguinosa esecuzione di massa di prigionieri politici compiuta nel 1988 dopo una fatwa (parere giuridico) emessa dal fondatore della Repubblica islamica, l’ayatollah Khomeini. Le stime parlano di almeno 5.000 persone giustiziate. Per queste azioni Raisi si trova sotto sanzioni Usa ed è il primo presidente iraniano a trovarsi già “sanzionato” al momento della sua elezione.

Raisi può succedere a Khamenei

La salita al potere di Raisi e quello che egli rappresenta per gli “ideali” della rivoluzione iraniana sarebbe quindi il frutto di un accordo tra vari apparati dell’establishment volto a impedire colpi di mano in vista della futura uscita di scena della guida suprema iraniana, l’82enne ayatollah Ali Khamenei. Questi, secondo voci più volte trapelate sui media internazionali, sarebbe malato e non più in grado di mantenere a lungo la sua carica. Raisi si mostra quindi il sostituto ideale per l’ambita, ma complessa carica di guida suprema e al di là della retorica anti Stati Uniti e anti Israele tipica dei politici conservatori iraniani, lavorerà per mantenere un Iran in una “crisi” controllata con l’obiettivo di evitare un collasso del paese o rivolte contro pasdaran e autorità religiose.

In questo contesto, come sottolineato da diversi analisti, il nuovo presidente mirerà a una politica estera bilanciata. Infatti a seguito della reimposizione delle sanzioni statunitensi nel maggio 2018, l’Iran è stato costretto a rivolgersi sempre di più alla Cina per poter vendere il suo petrolio e a fine marzo ha firmato un accordo strategico di 25 anni che prevede investimenti fino a 400 miliardi di dollari, ma anche una totale dipendenza del complesso e impenetrabile sistema economico iraniano da Pechino.

La dipendenza dell’Iran dalla Cina

Nonostante gli apprezzamenti di facciata, l’intesa è stata particolarmente osteggiata da molta parte dell’establishment iraniano proprio per il rischio di una dipendenza totale dalla Cina.

Per questo motivo, Raisi non si sarebbe detto contrario all’accordo sul nucleare, ma semplicemente non disposto a una contrattazione a oltranza. Infatti un accordo con gli Usa, o comunque, una apertura ai mercati occidentali, potrebbe rappresentare l’unica salvezza per l’economia iraniana e quindi per l’establishment politico, militare e religioso.

Foto Ansa

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