Qualche dubbio sulla prospettiva di un ordine mondiale “sistemato” all’americana

Il segretario della Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin (foto Ansa)

Sulla Zuppa di Porro Dino Cofrancesco scrive: «Un leader politico della Prima Repubblica ha detto in un talk show televisivo che per fortuna la politica estera dell’Ottocento non è più quella nostra. Per fortuna? Ma dobbiamo davvero salutare con gioia la scomparsa del concerto delle grandi potenze che, a partire dal 1815 – grazie alla ricostruzione dell’Europa dovuta al grande Metternich – assicurò al vecchio continente un secolo di pace e di progresso civile, economico e culturale?».

Cofrancesco pone con intelligenza il problema che ci troviamo di fronte: dobbiamo costruire un sistema di sicurezza continentale e globale con trattati tra gli Stati o esistono le condizioni per un ordine mondiale liberale garantito dalla superpotenza americana? La storia insegna che la prima via porta a lunghi periodi di pace mentre la mancanza di equilibri internazionali adeguati può provocare gravi rischi di guerra, nei nostri tempi, ahimè, anche nucleare.

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Sul Sussidiario Paolo Raffone scrive: «In Occidente, finora, solo Macron e il Papa sembrano aver capito, il primo forse per opportunismo nazionale, che la Russia va sì fermata per riportarla al tavolo negoziale ma non sconfitta né umiliata. Chi si farebbe carico di una Russia a pezzi con 6 mila testate nucleari a disposizione dei gruppi più fanatici? Chi eviterebbe la frammentazione di centinaia di nazionalità che cercherebbero di crearsi una loro repubblichetta anche nel vasto spazio ex sovietico?».

Ha ragione Raffone o la sua posizione spinge alla resa gli ucraini che costituirebbero una barriera fondamentale contro l’imperialismo grande russo?

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Su Dagospia si pubblica un articolo di Domenico Quirico sulla Stampa nel quale si scrive: «Per gli europei, prudenti, questa guerra è una sciagura che bisogna tentare di esorcizzare sveltamente. Per gli americani una imperdibile occasione di riaffermare una “iperpotenza” a cui sono giustamente affezionatissimi, che molti guai ed errori hanno rimesso in discussione. Se gli europei avranno il coraggio collettivo di affermare che gli americani in Ucraina stanno sbagliando a proporre questa vittoria totale, l’Unione compirà l’atto identitario decisivo per diventare quella che ancora non è, ovvero una presenza di qualche rilievo sulla scena mondiale e non soltanto in quella delle banche centrali, dei flussi commerciali e degli indicatori di ricchezza».

Quirico vuol seminare divisione tra gli alleati atlantici o descrive la realtà per quello che essa è?

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Su Fanpage Tommaso Coluzzi scrive: «È evidente che Macron ce l’avesse con Putin, ma anche e soprattutto con il presidente americano Joe Biden e con l’Ucraina. A tutti ha mandato messaggi chiari: l’Europa non è in guerra né vede come obiettivo finale la sconfitta della Russia».

Coluzzi esagera nel descrivere l’atteggiamento del presidente francese o ne coglie il messaggio essenziale?

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Su Formiche Lucio Caracciolo dice: «Quando il segretario della Difesa Austin afferma che l’obiettivo è indebolire la Russia non è chiaro dove sia la linea rossa e se Washington ha mai messo in conto un cambio di regime, che in Russia corrisponde a un cambio di Stato».

La linea Biden-Austin è la stessa di Scholz-Macron?

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Sul Sussidiario Giulio Sapelli scrive: «La maggioranza delle nazioni che si trovano nel mezzo della via verso lo sviluppo mondiale capitalistico, guidate dai possenti Stati africani e dal Brasile e dall’India, si oppongono con forza a questa folle strategia, come si è visto nelle votazioni all’Onu».

Sapelli condanna senza riserve la disperata aggressione russa all’Ucraina, ma sbaglia a individuare un ampio fronte mondiale contrario a una Washington che vuole “sistemare” il mondo unilateralmente come si deduce per esempio dalle parole del segretario della Difesa americano Lloyd Austin?

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Sulla Zuppa di Porro si riporta un’intervista televisiva di Leonardo Tricarico nella quale il generale dice: «“Queste processioni a cosa servono? Chi l’ha autorizzato ad andare lì? Michel non è capo di niente. Lui è il coordinatore di un ente intergovernativo, e quindi per realizzare degli atti formali ufficiali deve ottenere l’autorizzazione di tutti gli Stati europei. Io non credo che questo sia avvenuto”. Tricarico ne ha per tutti. Anche per Jens Stoltenberg, che due giorni fa s’è sperticato in valutazioni che forse escono dal suo ruolo istituzionale. Dopo l’apertura di Zelensky ad un possibile accordo con la Russia per la cessione della Crimea, infatti, il segretario generale della Nato ha straparlato e “rimesso al suo posto” il presidente ucraino. Il messaggio è arrivato forte e chiaro: la Nato, o almeno la sua guida americana, non sembra voler cercare la pace nell’immediato».

Nella discussione pubblica che si è sviluppata sulle vicende legate all’aggressione russa all’Ucraina, si ha spesso la sensazione che quelli che hanno meglio mantenuto il senso della realtà effettuale degli avvenimenti, siano i militari, abituati a giudicare con la necessaria concretezza l’evolversi delle situazioni. In questo senso è difficile non convenire con Tricarico che i rappresentanti di istituzioni sovranazionali dovrebbero comportarsi in questi giorni con il massimo della continenza, sapendo che nei momenti critici è necessario che si espongano innanzi tutto i poteri sovrani dotati della necessaria legittimità.

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Su Dagospia si scrive: «Tra Biden e Draghi, più che un incontro, è stato uno scontro. Washington si aspettava il marine Mario con elmetto e bombarda e si è ritrovata invece il “rappresentante” del pensiero di Macron esposto nel suo discorso a Strasburgo: “Quando la pace tornerà sul suolo europeo, non dovremo mai cedere alla tentazione dell’umiliazione”. Insomma, per chiudere questa fottuta guerra non bisogna stravincere: bisogna offrire a Mosca una via d’uscita accettabile».

Draghi è stato macroniano? O ha fatto un gioco delle parti con Biden? È il più atlantico degli europeisti? O è il più europeista degli atlantici? Sui media italiani si trovano molteplici e spesso contrapposte interpretazioni del comportamento del presidente del Consiglio italiano in America. A me pare che l’ex presidente della Bce abbia dato un’ulteriore prova di essere un insuperabile tecnico avanzando anche a Washington proposte serie sull’economia. Ma d’altra parte abbia nuovamente dimostrato di essere un politico molto peculiare, innanzi tutto privo di una solida legittimità che gli permetta di mettere al suo posto un mediocre personaggio come Giuseppe Conte o di non curarsi di un secondario esponente dell’establishment americano come Ian Brenner (qualche settimana fa quest’ultimo per richiamare all’ordine Draghi lo aveva definito una sorta di “Schröder” italiano). In realtà il nostro problema di fondo è che dal 2011, grazie innanzi tutto a Giorgio Napolitano, l’Italia non ha più un sistema politico seriamente fondato sul voto popolare.

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Su Dagopsia, da un articolo di Maria Berlinguer per la Stampa, si cita questa frase: «Se fossero le donne a governare è probabile che la guerra non sarebbe scoppiata. È quanto dice Giuliano Amato intervenuto ieri a Vita da campioni».

Insomma Amato avrebbe preferito che vincesse a Parigi Marine Le Pen invece di Emmanuel Macron? Forse la tragica guerra ucraina richiederebbe sobrietà.

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Su Startmag Francesco Damato scrive, riferendosi a Carlo De Benedetti: «Ha preferito affidare in una intervista proprio al Corriere un messaggio al presidente americano Biden, a Draghi e quant’altri che meglio non poteva essere riassunto in questo richiamo in prima pagina: “La guerra a Putin? Non è interesse di noi europei”».

Dopo aver apprezzato la malizia di Damato che fa notare come De Benedetti ricorra al Corriere e non si fidi del suo quotidiano, per lanciare un messaggio importante (nel Doman non v’è certezza?), credo che i più esperti osservatori dovrebbero chiedersi anche come mai un personaggio così ricco di relazioni come l’ex “editore” di Repubblica si esprima con tanta irruenza sulla crisi ucraina. È solo vanità? Voglia di apparire? Rancore con chi l’ha messo ai margini? O è anche espressione di convinzioni maturate in numerosi ambienti non solo in Europa ma nella stessa America?

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