Qual è la casa politica dei cattolici? Spunti per un dibattito

Non c’è solo un’allegra cacofonia di indicazioni, ma addirittura un’assenza di criteri orientativi. Perché? Che fare?



Qual è la casa politica dei cattolici? Intendo per “casa” l’ambito in cui le preoccupazioni e i valori che fanno riferimento alla dottrina sociale della Chiesa possono trovare espressione; e per “politica” il partito o la coalizione in cui tali intendimenti possono essere tramutati in leggi. La domanda ha un nota bene, ovvio per noi ma che è sempre bene esplicitare: se siamo ben consapevoli che la salvezza non arriverà dalla politica, tuttavia sappiamo che la politica, come scritto nel documento Mcl-Esserci, ha «comunque un ruolo e una dignità importante come moltiplicatore – oppure come ostacolo – delle energie positive presenti nella società».
Intervistato dal Corriere della Sera qualche giorno prima del voto, il cardinale Camillo Ruini ha espresso un timore poi rivelatosi fondato:

«I cattolici rischiano di essere sempre meno rilevanti, nonostante il loro grande contributo alla vita sociale. Per evitare questo esito, è indispensabile potenziare le capacità di tradurre la fede in cultura e in azione politica».

Se stiamo ai risultati di questa tornata elettorale, non possiamo non constatare come i partiti che si richiamavano direttamente alla dottrina sociale della Chiesa o hanno raggiunto risultati miseri (il Popolo della famiglia) o deludenti (Noi con l’Italia). Per quel che riguarda le altre formazioni, va rilevato come, da un lato, le “questioni cattoliche” (se così le vogliamo chiamare, semplificando molto), non sono in cima all’agenda dei programmi e, pur tuttavia, dall’altro, tutti i maggiori leader non hanno trascurato, ognuno a suo modo, di richiamarsi alla tradizione cristiana del nostro paese. Di Maio s’è fatto immortalare mentre riceveva la comunione durante la Messa per san Gennaro, Salvini ha giurato in piazza sul Vangelo mostrando il rosario, il boy-scout Renzi ha chiesto «il voto dei cattolici per il Pd», Berlusconi e Meloni hanno diverse volte sottolineato la natura laica e cristiana delle loro formazioni.
Dunque? Dunque c’è un problema e non da oggi, anche se fa una certa impressione lo strabismo di certa stampa di sinistra che scopre, solo ora, che i cattolici italiani se ne impipano delle indicazioni delle gerarchie. Mi riferisco all’articolo dell’ultimo numero dell’Espresso, diretto dal cattolico democratico Marco Damilano: “E il cattolico si scopre in movimento” in cui si parla di «scompiglio» nel mondo dell’associazionismo perché ad avere prevalso nell’urna sono i partiti cosiddetti “populisti”, sebbene la Chiesa di papa Francesco abbia esplicitato una preferenza per quelle formazioni che avevano come stella polare l’accoglienza degli immigrati. Ma, appunto, si tratta di strabismo tipico della intelligentsia liberal che concepisce la Chiesa come un agente puramente sociale. E che dunque, quando è retta da Ruini, urla al pericolo dell’Action française, e, quando è diretta da Galantino, rimane colpevolmente inascoltata. Così come un po’ superficiale è la lettura che sullo stesso settimanale propone il fondatore di San’Egidio, Andrea Riccardi, che, a proposito del voto cattolico, parla di «sconfitta»: sconfitta dal suo punto di vista, perché i credenti non hanno tenuto conto che sullo Ius soli «addirittura il Papa aveva firmato un appello».
Il problema, a noi pare, è quello indicato da Ruini quando invita «a potenziare le capacità di tradurre la fede in cultura e in azione politica». Qui la questione ha un doppio impasse, educativo e culturale.
Il primo lo ha evidenziato il sociologo Luca Diotallevi sul Foglio:

«Papa Francesco invita al discernimento, ma oggi le comunità ecclesiali e anche i soli pastori lo esercitano assai poco. Se ne comprende la ragione: è difficile, richiede cultura, ascolto, pensiero, umiltà, grande libertà spirituale, ma non ha alternative. La genericità dolce, la allegra cacofonia dei proclami ecclesiastici non fornisce alcun ragionevole orientamento agli elettori».

Usando parole un po’ forti, ci verrebbe da dire che, a parte alcune luminose eccezioni, è la gerarchia ad aver abbandonato il popolo. I pastori non fanno più i pastori, le guide procedono a tentoni, non c’è solo un’allegra cacofonia di indicazioni, ma addirittura un’assenza di criteri orientativi.
Non è un problema solo della gerarchia, ma anche dei laici impegnati nell’agone pubblico (tutti insomma, non solo i politici). E qui la questione è di ordine culturale con l’incapacità da parte del laicato cattolico – anche qui, con le sue eccezioni – di concepire la fede come un suggerimento per l’agire pubblico e, dunque, politico. Chi parla ancora di sussidiarietà? Che ruolo possono avere oggi i corpi intermedi? L’economia sociale di mercato è un ferrovecchio del secolo scorso? Quali esempi proporre di un’integrazione che tenga conto sia dell’accoglienza sia dell’esigenza di preservare l’identità cristiana di un popolo? I temi antropologici legati alla fine e all’albore della vita sono battaglie di retroguardia? In definitiva e facendo un passo ulteriore: chi si occupa di “formare” una classe politica che concepisca la propria fede non come una patente di moderatismo, ma come motore del proprio intervento?
Sono domande in attesa di risposta. L’irrilevanza politica è figlia di un’irrilevanza culturale, di un’incapacità di leggere l’attualità secondo il tesoro che la tradizione cattolica ha consegnato. Lamentarsi che il popolo di Dio abbia le idee confuse, ci pare il primo sintomo di una sconfitta. Chi ha proposte si faccia avanti, anche su Tempi.
Foto Ansa

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