Di cosa ha paura il governatore Emiliano? Di dare piena attuazione alla legge 194?

Perché in Puglia una misura sperimentale, fondata sulla normativa, il consenso, la gratitudine di madri aiutate (gratis) da medici e volontari, e soprattutto richiesta dalle donne stesse per portare avanti la gravidanza è diventata «un attacco all’aborto»?

Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia (foto Ansa)

«Di cosa ha paura il governatore Emiliano? Di dare piena attuazione alla legge 194? Di scoprire quante donne porterebbero a termine la gravidanza se aiutate a rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale come legge comanda? Diciotto mesi: tanto sarebbe durata la sperimentazione della misura del piano regionale di politiche familiari dedicata all’applicazione degli articoli 2 e 5 della 194/1978. Un tempo adeguato per correggerla e calibrarla; una richiesta che partiva dal territorio, non calata dall’alto, a cui tutte le istituzioni e gli enti deputati sono al lavoro dal 2021».

Un lavoro fatto così bene che lo scorso 17 aprile la Regione Puglia approva le linee guida attuative della misura che promette – tra numerosi altri interventi e servizi integrati – un sostegno economico di 5 mila euro alle mamme che desiderino un aiuto per proseguire una gravidanza condizionata da difficoltà e vulnerabilità sociale ed economica, «e sottolineiamo “alle donne che lo desiderino”», ripete a Tempi Rosanna Lallone, esperta Welfare, per trent’anni dirigente ai servizi sociali della Provincia di Bari. Un dettaglio che La Gazzetta del Mezzogiorno decide di ignorare attaccando la Regione e denunciando «un tentativo per ridurre il diritto di ricorrere alla Ivg», «una misura oscurantista», «che ignora la realtà», si legge il 22 aprile sul quotidiano che si intesta il merito di aver convinto, con i suoi articoli, Emiliano a ritirarla.

Le mamme chiedono aiuto, i giornali gridano: “Attacco alla 194”

«Ma di quale realtà parla La Gazzetta del Mezzogiorno?», chiede Rosanna Lallone che non ha passato i decenni seguiti all’approvazione della 194 in una redazione ma ad accompagnare, col marito ginecologo Dino Dellino (autore della coraggiosa lettera inviata alla Gazzetta del Mezzogiorno che Tempi ha pubblicato qui), centinaia di donne in difficoltà di fronte alla decisione di portare avanti o meno la gravidanza, «tante ne sono passate al Centro di aiuto alla vita di Bari. Dove in molti, a titolo professionale o volontario, abbiamo sostenuto senza giudizi e pregiudizi (e senza ricevere un soldo dallo Stato, ndr) donne in condizioni così precarie da non potersi permettere un figlio. Lo abbiamo fatto fino ad accollarci, noi e altri amici, l’onere di accogliere in casa, per tutta la gravidanza, donne sconosciute fino alla loro richiesta di aiuto. Lo abbiamo fatto coinvolgendo professionisti che mettendo gratuitamente a disposizione le loro competenze, hanno contribuito a risolvere problemi complicati dal punto di vista medico e non solo».

Per capire l’entità di un fenomeno che la misura stessa avrebbe potuto per la prima volta studiare e quantificare in Puglia (dove leggiamo che il tasso di aborto è del 6,4 per cento contro una media nazionale del 5,6 per cento), Rosanna Lallone chiarisce subito che un problema esiste, rilevantissimo: «Parlo degli aborti ripetuti. Il rischio che in Puglia l’Ivg sia usata come sistema contraccettivo è reale. Nel mio lavoro ho incontrato decine e decine donne che si erano sottoposte più e più volte ad aborto, una donna era arrivata a 13 interruzioni di gravidanza. Per questioni di privacy la legge non prevede che vengano registrati, ma che la normativa sia utilizzata in spregio ai suoi stessi enunciati (“evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”, ndr), è evidente».

Donne in difficoltà? Da anni le aiutano (gratis) solo i volontari

Quantificare le assunzioni delle pillole e degli aborti farmacologici (Bari stata la prima città in Italia a introdurre la RU486) in solitudine è impossibile, le cause invece sono note a chiunque abbia dedicato la sua vita a rispondere ai bisogni delle donne: «Certo, c’è una fascia di persone che sceglie l’aborto perché non vuole bambini, carichi familiari, non vuole compromettere la sua carriera, magari nemmeno rinunciare a un viaggio già programmato. Ma c’è una fascia di popolazione, prevalente nelle classi medio basse, che si vede “costretta” a scegliere l’interruzione di gravidanza per motivi essenzialmente sociali ed economici. Donne con bisogni specifici: mi riferisco a minorenni prive di un luogo protetto in cui portare avanti la gravidanza, famiglie con enormi problemi abitativi, senza lavoro, con redditi bassissimi. Per anni abbiamo cercato – e trovato – soluzioni di concerto con i Comuni: da queste esigenze sono nate le prime case famiglia, ma anche le prime famiglie aperte all’accoglienza di queste madri e dei loro bambini».

Molti di loro oggi sono adulti e nessuno dimentica il “villaggio” spontaneo sorto intorno a ciascuna nascita grazie ai volontari che gravitavano attorno al Centro di aiuto alla vita. Parliamo al passato perché quando i volontari chiedono a diocesi e istituzioni di aiutarli a “strutturare” il loro lavoro, dedicando al Cav una figura stabile, nessuno risponde. Ma le mamme non smettono di chiedere aiuto e così si continua comunque a seguire gratuitamente la gravidanza di ciascuna mamma che non possa permettersela; c’è chi non cambia idea sull’aborto ma ha bisogno di confrontarsi con qualcuno, c’è chi accetta il parto in anonimato, chi, dopo aver visto il piccolo nato, non resiste e decide di tenerlo. «Ma questo accade quando hai una famiglia pronta ad aiutarti, cosa più unica che rara quando una ragazza molto giovane cerca di abortire. Noi non diciamo che cinquemila euro cambiano le cose, diciamo che la misura studiata per un anno e mezzo e di cui si è fatta portavoce l’assessore al Welfare Rosa Barone, dei Cinque stelle, rispondeva a un dato reale: la necessità di tutelare e sostenere le donne con interventi di vario tipo, dal sostegno economico a quello psicologico alla mediazione familiare. E soprattutto riteniamo importante la natura sperimentale della misura: nulla vietava, al termine dei 18 mesi, di riprogrammare o modificare l’intervento sulla base delle risposte pervenute e del monitoraggio effettuato».

Una delibera costruita come la 194 comanda

Alla misura, concretissima, si è arrivati infatti attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori in ambito sociale, socio sanitario e istituzionale del territorio, lato Comune, con gli assistenti sociali, e lato Regione, con i consultori. Motore di un iter rispettoso di consultazioni e concertazioni è stato il Forum delle associazioni familiari di Puglia guidato da Maria Lodovica Carli, e sono tanti gli esperti, i tecnici, i medici e le associazioni di volontariato coinvolti fin dal 2021. Ben prima della salita al governo di “un’oscurantista” Giorgia Meloni e con decenni di ritardo dall’approvazione della legge 194. Che all’articolo 5, comma 1, dice esplicitamente:

«Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».

Di cosa ha paura il governatore Emiliano?

Di questo si occupava la misura nel pieno rispetto del consenso e della privacy della donna. «Il provvedimento rispondeva correttamente alla legge: alla base del contributo a “superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” (articolo 2) e “rimuovere le cause che la porterebbero all’Ivg” (articolo 5) c’era sempre l’autorizzazione della donna. C’è chi ha obiettato con motivazioni paragiuridiche che la misura ne violasse la privacy, ma non c’è nulla di vero».

Per questo gli articoli della Gazzetta del Mezzogiorno, nonché i commenti di molti esponenti del Pd, Laura Boldrini in testa («Il contributo economico legato alla rinuncia all’aborto è un ricatto inaccettabile. Bene aver ritirato la delibera sperimentale della Puglia che lo avrebbe previsto. I diritti delle donne non sono in vendita», ha twittato la deputata) sono pura ideologia. Di cosa ha paura il governatore Emiliano? Di una richiesta che arriva dalle donne stesse? Della testimonianza di centinaia di donne che ricevuto aiuto, accoglienza e corredino, sono grate di aver incontrato qualcuno che si è preso cura di loro invece di liquidarle con un certificato? O di spiacere alla segreteria del nuovo Pd a trazione radical, in cui non c’è posto per compromessi e dialogo quando si tratta di diritti civili e soprattutto del dovere di applicare la 194 in tutti i suoi articoli?

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