Profughi. Unico argine la sottile linea turca?

Così Erdogan ha usato la marea dei disperati per convincere la Germania ad aprirgli le porte e il portafoglio dell’Europa. Senza dover rinunciare ai suoi piani illiberali. Alternative? Non pervenute

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Aggiornamento: Ieri Unione Europea e Turchia hanno raggiunto un accordo: in cambio di sei miliardi di euro, Ankara si riprenderà tutti i rifugiati attualmente nei campi profughi greci a partire da domenica 20 marzo. Per ogni rifugiato siriano che ha diritto a ricevere asilo respinto in Turchia, ne verrà inviato uno in Europa fino a un massimo di 72 mila unità. Verranno anche velocizzate le trattative per l’entrata della Turchia nell’Ue, ai cittadini turchi da giugno sarà dato accesso ai visti Schengen.

Non tutti sono d’accordo su tutto, ma la strada oramai è aperta. Il summit dell’Unione Europea del 17 e 18 marzo sancisce il nuovo modello di sviluppo dei paesi confinanti con l’Europa dei 28: incasseranno valuta e godranno di privilegi come portinai del vecchio continente, piantoni della fortezza Europa, buttafuori della discoteca Deutschland über alles. Recep Tayyip Erdogan e Angela Merkel hanno mostrato la via e gli imitatori non mancheranno.

Secondo la vulgata corrente, la controproposta turca con cui il primo ministro Ahmet Davutoglu lunedì 7 marzo si è presentato al summit euro-turco di Bruxelles sui migranti, dopo averla anticipata alla Merkel e al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk la sera della domenica, è stata un colpo di scena inatteso, una spudoratezza da bazar. La verità è che la Germania ha condotto per settimane trattative con Ankara parallele a quelle che le istituzioni europee stavano conducendo. La cancelliera ha fatto circolare la storiella secondo cui nemmeno lei sapeva nulla della proposta turca fino all’invito a cena in ambasciata che lei e il presidente di turno olandese Mark Rutte hanno ricevuto da Davutoglu. La verità è che mentre Donald Tusk, Frans Timmermans (il vice di Juncker) e Federica Mogherini facevano la spola fra Bruxelles e Ankara e affidavano ai rispettivi funzionari il compito certosino di mettere a punto i meccanismi per affinare e rendere operativo l’accordo del 29 novembre (quello dei 3 miliardi di euro alla Turchia per incoraggiarla a tenersi i profughi siriani), la Merkel per conto suo incontrava sei volte il governo turco e delineava quello che poi sarebbe stato fatto passare agli ignari capi di governo europei riniti a Bruxelles come il piano Davutoglu dell’ultimo momento.

Alcuni dei contenuti qualificanti di quel piano erano già stati fatti filtrare alla stampa tedesca nelle settimane precedenti. Persino l’edizione in lingua inglese di Der Spiegel ancora a metà di febbraio speculava: «Il nucleo del piano Merkel è un’offerta di prendere un numero predeterminato di rifugiati ogni anno, fra i 200 e i 300 mila. Essi verrebbero poi redistribuiti in tutta l’Europa, e ogni stato membro sarebbe tenuto ad accoglierne una quota. Idealmente, tutti quelli che di loro iniziativa passano dalla costa turca alle isole greche verrebbero respinti in Turchia. Lì dovrebbero decidere se fare domanda per essere inseriti nella quota annuale destinata all’Europa o fare ritorno in patria».

Il piano Tusk mirava più modestamente al respingimento in Turchia degli emigranti economici approdati sulle spiagge greche (i non siriani e i non iracheni) e a un maggior impegno da parte di Ankara nell’impedire le partenze dalle sue coste. Col piano Davutoglu non solo la Turchia accetta di riprendersi i migranti economici, ma anche di tradurre in realtà la visione ideale della Merkel: si riprende i siriani e li mette in coda nella lista di attesa di quelli che accettano di seguire le procedure legali per rientrare fra quanti l’Europa acconsente ad accogliere.

I due aspetti del piano che più hanno fatto sensazione sono il principio “un siriano accolto per ogni siriano respinto” e soprattutto le sostanziose concessioni che l’Europa farebbe: il versamento di altri 3 miliardi di euro a partire dal 2018 (in aggiunta ai 3 miliardi già stanziati per il 2016-2017), l’esenzione del visto d’ingresso nell’area Schengen per tutti i cittadini turchi a partire dal giugno di quest’anno e l’apertura di nuovi capitoli del negoziato per l’accesso della Turchia all’Unione Europea. Le obiezioni sono piovute a grappoli: dichiarare la Turchia “paese terzo sicuro” e respingervi persone che hanno intenzione di chiedere asilo in Europa è un atto ai limiti della legalità internazionale, non essendo Ankara firmataria di tutti i protocolli di Ginevra relativi a profughi e richiedenti asilo; l’applicazione letterale del principio “un siriano accolto per ogni siriano respinto” dalle isole greche si presta alle manipolazioni più fantastiche; esentare dal visto di ingresso 75 milioni di turchi, almeno 15 dei quali vivono nel sud-est e nell’est tormentati dalla guerriglia del Pkk e dalla repressione talvolta indiscriminata delle forze governative, rischia di generare un flusso di immigrati illegali turchi (soprattutto di origine curda) verso l’Europa, e dall’altra parte appare impossibile da attuare entro giugno, risultando Ankara inadempiente riguardo a 72 criteri (François Hollande dixit) da rispettare per la liberalizzazione dei visti; l’apertura di nuovi capitoli del negoziato per l’accesso della Turchia all’Europa, infine, è semplicemente impossibile nel momento in cui il suo governo prende il controllo dei media di opposizione (vedi il caso del quotidiano Zaman e dell’agenzia di stampa Bakis) e continua a non riconoscere il governo di un paese membro dell’Unione, quello di Cipro che siede a Nicosia, come l’unico governo dell’isola.

È già abbastanza umiliante per l’Europa concludere accordi con un paese in piena deriva autoritaria, ambiguo al limite della complicità nei confronti dell’Isis e coinvolto nella destabilizzazione della Siria, ma addirittura aprirgli le porte dell’adesione! Il fatto è che la Turchia è pienamente consapevole del potere di ricatto di cui dispone nei confronti dell’Europa nel contesto della crisi attuale, e lo sta usando fino in fondo. La vicenda dei profughi ha messo in crisi i rapporti fra i 28 e mostrato la mancanza di solidarietà e di una politica comune. Se il flusso dei profughi verso i paesi del Nord Europa continua, la Merkel e gli altri governi della zona rischiano di perdere tutte le prossime elezioni; se l’ondata dei profughi s’infrange sulla barriera che Austria, Ungheria e paesi balcanici hanno creato negli ultimi mesi, in Grecia scoppia una crisi umanitaria che sommata alla crisi economica e al disagio sociale causato dalle politiche di aggiustamento strutturale cui Atene è sottoposta rischiano di innescare l’uscita del paese dall’euro e la conseguente catastrofe continentale.

Il vero disegno di Recep
È per questo che Ankara può permettersi di alzare il prezzo della sua collaborazione alla soluzione dei problemi nel momento stesso in cui vìola tutti i princìpi europei possibili e immaginabili in materia di libertà di stampa e di diritti politici (il governo sta cercando di togliere l’immunità ai deputati curdi per poterli accusare di complicità col Pkk e arrestarli). La sudditanza europea nei confronti dell’autoritario governo turco non è solo una questione di incoerenza coi propri princìpi: rappresenta una complicità attiva coi disegni autocratici di Erdogan. L’ingresso della Turchia nell’Unione non è affatto una priorità per costui: lo costringerebbe a rispettare standard in materia di diritti politici e civili che sono estranei ai suoi programmi.
Quel che gli interessa veramente è un successo propagandistico personale. Anche se la liberalizzazione dei visti entro giugno non sarà possibile e se l’adesione all’Europa resterà una chimera, Erdogan può ora indire un referendum costituzionale per concentrare nelle mani del capo dello Stato tutti i poteri, presentandosi agli elettori come colui che ha costretto l’Europa a concedere alla Turchia ciò che le aveva sempre negato.

La sostanziale accettazione da parte dell’Europa del piano Davutoglu sponsorizzato dalla Merkel non va letta in antitesi alla chiusura della rotta balcanica sponsorizzata da Tusk: le due politiche si sostengono e si completano a vicenda, nonostante la retorica merkeliana e le opposte propagande dei ponti e dei muri abbiano cercato di far credere il contrario. La politica delle porte aperte annunciata dal cancelliere tedesco nel settembre scorso non poteva durare: aveva alleggerito i paesi di primo approdo (Grecia e Italia), ma messo in allarme i paesi dell’Est nei quali avrebbe dovuto essere ricollocata una quota dei profughi e quelli lungo il percorso dei viaggi della speranza.

Ungheria e Austria, i paesi europei che più si sono ribellati alla politica tedesca, si sono trovati a gestire non solo i problemi e i costi logistici legati alla loro condizione di territori corridoio, ma anche un’impennata delle domande di asilo: le 174.435 domande del 2015 in Ungheria e le 85.505 in Austria pesano di più delle 441.800 in Germania. Mentre queste ultime corrispondono a una media di una domanda ogni 183 abitanti, quelle depositate in Ungheria equivalgono a una ogni 56 abitanti e quelle dell’Austria a una ogni 100. Solo la Svezia è paragonabile ai due paesi mitteleuropei, con 156.110 domande che equivalgono a una ogni 62 abitanti.

A spese della Grecia
Mentre criticava la politica delle frontiere chiuse dell’Ungheria prima e dell’Austria e dei suoi alleati balcanici dopo, la Merkel se ne avvantaggiava, perché quella politica ha determinato una flessione degli arrivi in Germania e quindi una minore irritazione degli elettori tedeschi conservatori nei suoi confronti. Gli effetti collaterali della chiusura della rotta balcanica però sono perversi. Nel breve periodo trasformano la Grecia in una malsana tendopoli, con scene da collasso della civiltà come quelle che vengono trasmesse dagli accampamenti di Idomeni (14 mila profughi) alla frontiera con la Macedonia. Nel medio termine rischiano di causare un tracollo delle istituzioni ad Atene per il combinato disposto di depressione economica e sovrappiù di disagio sociale da immigrazione di massa (i profughi allo sbando in terra ellenica sono 35 mila).

Nel lungo periodo la compromissione del principio della libera circolazione delle persone, il contenuto fondamentale degli accordi di Schengen, causerebbe danni economici per mancato Pil che la Commissione europea stima fra i 500 e i 1.400 miliardi di euro in un decennio. Dunque l’accordo con la Turchia e la chiusura della rotta balcanica con la messa in sicurezza delle frontiere esterne dell’Unione devono essere contestuali: è quello che Tusk ha sempre detto apertamente, e che la Merkel ha sempre saputo ma non ha mai ammesso per opportunismo politico.

Tuttavia nemmeno questo duplice provvedimento sembra dover mettere la parola fine alla crisi: in tutte le capitali europee e nelle sedi centrali delle grandi organizzazioni internazionali si fa a gara a indovinare quali nuove tratte inaugurerà l’emigrazione clandestina. Ha dichiarato la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i profughi Carlotta Sami: «La chiusura della rotta balcanica non fermerà i flussi. Avremo nuove rotte con nuovi problemi. Ci stiamo preparando a un aumento degli arrivi attraverso la Libia, la Bulgaria, dalla Turchia all’Italia e dalla Libia all’Italia.

C’è anche la possibilità che un maggior numero di persone passi attraverso la Spagna». L’Ungheria ha già annunciato che costruirà una barriera di confine con la Romania identica a quella eretta sulla frontiera con la Serbia se i flussi migratori si sposteranno da quella parte. Le autorità italiane e albanesi da settimane si incontrano per mettere a punto un piano di emergenza nel caso che i profughi intrappolati in Grecia decidessero di passare in Albania e da lì salpare per l’Italia. Il Guardian annuncia la creazione di una rotta che passerebbe attraverso l’Ucraina, raggiunta dagli aspiranti profughi attraverso il Mar Nero.

Boom di sbarchi in vista
In tutti gli scenari, una delle certezze è che gli sbarchi in Italia aumenteranno esponenzialmente. Fra l’inizio dell’anno e l’8 marzo, in Italia sono sbarcati 9.294 migranti irregolari, contro i 9.117 dell’anno scorso nello stesso arco di tempo. Un’inezia rispetto ai 131.847 sbarcati nello stesso periodo del 2016 sulle isole greche. L’anno scorso l’Italia è stata l’approdo di 153.842 irregolari, in diminuzione rispetto al 2014 quando erano stati 170 mila. L’unico modo per non assistere a un incremento sostanziale di questi numeri e magari abbassarli un po’ è una stabilizzazione della situazione politico-militare in Siria e in Libia. Possibile ma non probabile. Ma anche una Libia e una Siria stabilizzate potrebbero diventare hub di rinnovate migrazioni di massa per motivi economici (l’Africa nera) o legati a guerre (Iraq, Afghanistan) verso l’Europa. A quel punto all’Italia non resterebbe che proporre il modello Davutoglu a molti paesi che si affacciano sul Mediterraneo: fate da piantoni e da portinai per noi, paghiamo bene e vi lasciamo visitare casa nostra senza visto.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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