La benedizione del lavoro

Articolo tratto dal numero di maggio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Le sette del mattino di sabato primo maggio. Dal fondo della mia via intendo un’eco di motori di camion, e ordini gridati a voce alta, in un frastuono di merci scaricate. Di sabato, è vero, c’è mercato – penso, ancora mezza addormentata – ma oggi è il primo maggio: impossibile. Da sempre ho visto in questo giorno a Milano le saracinesche sbarrate, e le vie deserte come quasi a Ferragosto. Eppure, tendo l’orecchio: sembra proprio il rumore, il canto del mercato.

Mi vesto, metto il guinzaglio al cane e – sono le otto ormai – vado a vedere. Stanno davvero scaricando le casse di frutta e verdura arrivate dall’Ortomercato, e allineandole in fila lucenti e coloratissime sui banchi. Da come si chiamano, si apostrofano e scherzano sul Milan, gli ambulanti parrebbero anche di buon umore. Incredibile poi, trovo aperto pure il panettiere, e il bar dell’angolo, dove già il ragazzo al banco svuota e riempie veloce il filtro della macchina dell’espresso, perché chi si è levato all’alba vuole il caffè. Quel profumo acre e familiare esce dal locale e calamita i primi passanti (che gioia, sedersi all’aperto e semplicemente bere un caffè).

Ma il fatto straordinario è che tutto questo accada in un primo di maggio, un giorno che da ragazza mi sembrava più sacro di Pasqua, il giorno in cui sotto agli striscioni e alle bandiere rosse massicci cortei marciavano, scandendo slogan, verso piazza Duomo.

Quest’anno invece, dopo oltre dodici mesi di pandemia e aspra disoccupazione e crisi, tutti quelli che possono il primo maggio lavorano. E sembrano felici di lavorare. Appare quasi lieta questa Milano affollata, con le saracinesche alzate e i tavolini all’aperto dei bar del centro gremiti, nel giorno di pioggia, sotto ai tendoni.

Che cosa strana, mi dico riandando al ricordo di come era una volta. È come se, quest’anno, la festa del lavoro fosse lavorare. Come se si fosse capito, da alcuni almeno, che privilegio e che benedizione è, avere un lavoro.

Quasi che questo doloroso anno almeno qualcosa di buono ce lo avesse lasciato: l’aver compreso che il lavoro non è giogo e tedio quotidiano o perfino condanna, qualcosa da cui scappare ansiosamente alle 18 in punto, correndo all’happy hour (l’“ora felice”, appunto, in cui con l’ufficio si è chiuso). L’aver capito che avere un lavoro è, prima che diritto, privilegio; e non solo per portare a casa uno stipendio e dar da mangiare ai figli, ma proprio per un’intrinseca necessità nostra interiore. Ci fa male stare senza far niente, non l’abbiamo imparato in quest’anno prigioniero? L’ozio, alla lunga, perde di allegria, e diventa un interminabile tempo del vuoto. Forse senza dircelo apertamente, dentro di noi almeno, questo nell’anno cupo del Covid ci si è fatto evidente: è una grazia, al mattino, poter andare al lavoro.

Il mercato, poi, è durato tutto il giorno, nonostante la pioggia, e, passando alle cinque, con sollievo ho visto i banchi del pesce e della frutta spogliati. Mentre già oltre le bancarelle si allineavano i mezzi dell’Amsa, i cassoni come bocche voraci spalancate a ingoiare masse di cassette e di rifiuti: in quel clangore di metalli e sovrapporsi di voci stanche e battute, che è il canto della fine del mercato.

Che non mi è mai sembrato tanto bello quanto in questo primo maggio, quando per mesi molti ambulanti, poveretti, non avevano portato a casa un euro: così che quasi non gli sembrava vero di essere tutti insieme, di nuovo, sulla strada, con una folla di gente che scorreva vociante nel mezzo. E a me, che passavo con gli altri, è sembrata una festa del lavoro – ma una festa, davvero.

Foto Ansa

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