Perché papa Francesco ha fatto bene ad andare in Iraq

Chiedo scusa per il ritardo, e chiedo scusa perché ne faccio una questione personale, ma dell’articolo di Chico Harlan apparso l’8 marzo scorso sul Washington Post a proposito del viaggio del Papa in Iraq ho preso conoscenza solo l’altro ieri, grazie al sunto che ne ha fatto Aldo Maria Valli sul suo blog.

Un articolo in cui l’inviato al seguito di papa Francesco si mostra scandalizzato del fatto che la missione fosse stata programmata e realizzata nonostante la perdurante epidemia di coronavirus, che migliaia di persone siano state esposte alla possibilità del contagio nel corso di cortei e celebrazioni dove le misure di protezione personale e di distanziamento erano a dir poco trascurate, che una delegazione di circa 70 persone vaccinate – tanti erano i partecipanti al volo papale – si sia recata in mezzo a un popolo dove le campagne vaccinali erano appena iniziate.

Essere in mezzo ai cristiani iracheni

Io invece sono scandalizzato che un giornalista che è entrato in contatto con la realtà irachena, in particolare con la realtà della minoranza cristiana, possa scrivere cose del genere.

Sono scandalizzato di trovarmi di fronte a un attacco del pezzo che fa così: «Da ogni punto di vista, il viaggio di papa Francesco in Iraq è stato stupefacente. (…) Ha pregato nello stesso luogo dove meno di sette anni prima il leader dello Stato Islamico aveva proclamato un califfato che avrebbe “conquistato Roma”. Le folle erano adoranti, urlanti, in certi momenti piangenti. La scena era insuperabile. E tuttavia, nel mezzo di tutto ciò, ho continuato a pensare al coronavirus».

Caro Chico Harlan, hai continuato a pensare al coronavirus perché eri “in mezzo” ma non eri “con”. Perché non ti sei mescolato con la gente, non hai parlato con loro, non hai vissuto l’attesa con loro e poi l’arrivo del Papa. Come hanno fatto invece altri reporter, come ha fatto linviato di Tempi a Qaraqosh Francesco Leone Grotti. Come hanno fatto tanti giornalisti prima di te negli anni che vanno dalla caduta di Saddam Hussein a quelli dell’invasione della piana di Ninive, di Mosul e di altre regioni dell’Iraq da parte dell’Isis.

Un popolo di martiri

Come ha fatto il sottoscritto per cinque volte fra il 2008 e il 2015, cercando e trovando alloggio nei monasteri e presso le parrocchie, nelle case di famiglie cristiane e nei loro prefabbricati dei campi per sfollati costruiti nel 2014, quando hanno dovuto abbandonare le loro case requisite dallo Stato Islamico. Superando le remore relative alle possibilità di contagio, avresti dovuto avvicinarti a quegli uomini, a quelle donne e a quei bambini, a quei sacerdoti e a quelle religiose, e farti dire da loro perché erano lì, perché si assumevano la responsabilità di esporre se stessi e gli altri all’eventualità del contagio da coronavirus, che fino ad oggi in Iraq, paese di 40 milioni di abitanti, ha causato 14 mila morti (in Italia sono 107 mila) e dove sono stati censiti 815 mila casi (in Italia quasi 3 milioni e mezzo).

La risposta che ti avrebbero dato – io non ero lì, ma sono sicuro di quello che dico – sarebbe stata che fra il rischio di ammalarsi di Covid e contagiare qualche familiare o amico e il rischio che la visita del Papa fosse rimandata (come già accaduto al tempo di Giovanni Paolo II, purtroppo “sine die”) e che il Papa non potesse calpestare la terra dei loro avi, dei loro martiri e della faticosa ricostruzione di questi giorni, preferivano senza esitazioni incorrere nel primo rischio anziché nel secondo.

Mettere la vita in pericolo

Caro Chico Harlan, avresti potuto scrivere un articolo molto interessante su questo fatto: che avevi incontrato persone per le quali anche oggi ci sono imperativi superiori a quello di non infettarsi di Covid e di non trasmettere ad altri l’infezione. E che nella piana di Ninive, regione dell’Iraq settentrionale abitata da varie minoranze religiose ma principalmente da cristiani e yazidi, queste persone non rappresentano esemplari di anarco-individualisti che mettono l’arbitrio individuale al di sopra degli interessi sociali, ma rappresentano la voce di un popolo che unanimemente invocava la visita del Papa e che unanimemente ha gioito al suo arrivo.

Se alla vigilia della visita fosse stato indetto un plebiscito nel quale si chiedeva ai cristiani di Mosul (pochi), di Qaraqosh e di Erbil “volete voi che la visita del Papa alle vostre comunità abbia luogo adesso, o volete che si rinviata al giorno in cui la pandemia da coronavirus sarà stata completamente debellata?”, beh, il “sì” alla prima opzione avrebbe vinto con una percentuale di voti a cavallo fra il 99 e il 100 per cento. Perché gli aventi diritto al voto in un referendum del genere sarebbero stati gli stessi che ogni giorno della loro vita, ogni mattina che si svegliano, devono votare il seguente quesito: “vuoi tu continuare ad essere un cristiano in Iraq, con tutti i rischi della cosa per te e per la tua famiglia, o preferisci aderire al gruppo maggioritario della tua regione, sunniti, sciiti, curdi, ecc.?”.

E tutti i giorni questi elettori decidono di optare per la soluzione che mette maggiormente in pericolo la loro vita e quella dei loro familiari. Evidentemente perché nella loro visione della vita, nella loro scala dei valori, nel loro mondo delle relazioni vitali ci sono cose più importanti della mera autoconservazione biologica. Perciò il loro “voto” non è l’espressione di un’autodeterminazione individuale esaltata, ma la conseguenza dell’esperienza dell’appartenenza a un popolo, che è poi il Popolo di Dio, l’”entità etnica sui generis” di cui parlò Paolo VI.

Bombe o mascherine

Nessun Comitato tecnico-scientifico ha espresso pareri al posto degli iracheni, nessun governo ha tradotto in atti amministrativi quegli eventuali pareri, nessuna polizia perciò controlla mascherine e distanziamenti: in Iraq soldati, poliziotti e milizie di villaggio controllano che le persone a bordo delle auto non trasportino bombe, o terroristi in incognito. Vige quel particolare tipo di democrazia che è l’implicito plebiscito quotidiano nel quale gli iracheni decidono quali sono i rischi che vogliono correre: fare parte di una minoranza suscettibile di discriminazioni, essere rapiti, morire in un attentato, ammalarsi di coronavirus.

Invece a noi cittadini di una democrazia avanzata, infinitamente meno disfunzionale di quella che in teoria governa l’Iraq dal 2005, quel plebiscito è negato: nessuno ci consulta per sapere se siamo d’accordo a tenere chiuse le scuole e a chiudere bar e ristoranti dopo le 18, nessuno ci chiede quali rischi vogliamo affrontare e quali vogliamo completamente evitare. Nessuno ci ha chiesto se l’unico imperativo etico e sociale di questi tempi debba essere quello relativo ai contagi da Covid, o se sia possibile anche per chi non è medico o infermiere obbedire a imperativi più importanti, come vediamo a fare da tutte quelle persone che si occupano dei malati rischiando a loro volta di contagiarsi e di contagiare.

E c’è pure chi ha il coraggio di dire che questa infantilizzazione del cittadino (“noi sappiamo, tu non sai, noi decidiamo quali rischi tu e il tuo giro di persone potete accollarvi senza bisogno di ascoltarvi”) ci richiama semplicemente a “stare alla realtà”. La realtà o la narrazione della realtà confezionata e vidimata dalle istituzioni? E come facciamo a verificare la congruenza di quella narrazione se il dibattito democratico è demonizzato? E che dire del diverso approccio alla realtà degli iracheni rispetto a quello degli europei? L’unica conclusione possibile è il senso di scandalo del Washington Post, la tiratina di orecchi a papa Francesco e alla Chiesa?

Non c’è nessuna lezione positiva da trarre da parte nostra? Le risposte a queste domande non sono né facili, né scontate, ma una cosa è sicura: non ci si può più trincerare dietro una mantra, quello dello “stare alla realtà”, che comincia a suonare un po’ ideologico.

Foto Ansa

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