L’ospedale di Gaza, tra “misfire” e depistaggi

Già altre volte è capitato che un lancio sbagliato da Gaza ricadesse nella Striscia e uccidesse dei civili. E le parole del cardinale Pizzaballa, pronto a offrirsi in cambio degli ostaggi

L’ospedale Al-Ahli a Gaza, 18 ottobre 2023 (Ansa)

Le analisi anestetizzano, sembrano razionalizzare l’orrore. Spiegano “dopo” quello che è accaduto prima. I numeri – mille, duemila, tremila morti per parte, altrettanti e più feriti – diventano statistiche, pesano sulla bilancia dell’equidistanza. Dei “se” e dei “ma”. Ma i fatti sono ostinati e si ripropongono ogni giorno, costringono ad un bagno di realtà che si impone sui faticosi tentativi della diplomazia mondiale di evitare un allargamento del conflitto, sulle paure occidentali che il terrorismo torni, ritorni, frantumato in mille cellule, a minacciare la mai raggiunta tranquillità dell’Occidente, sull’ostinata indifferenza con cui abbiamo ignorato quanto accade in buona parte del mondo.

Quello che accade in Israele e che ora ci costringe ad aprire lo sguardo è solo una parte del gigantesco conflitto in un mondo malato, un pianeta dove pochi abitanti si illudono di poter vivere da sazi e sani tra moribondi e affamati.

È anche questo il richiamo che viene da chi ha la responsabilità della Chiesa nel luogo dove la Chiesa è nata. Il cardinal Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, usa sempre toni pacati, ma decisi, quando parla del conflitto in corso. Sa che ogni parola sarà pesata dalle parti in causa, e non sono solo israeliani o palestinesi. Sa che i cristiani sono qui i testimoni di una apparentemente impossibile speranza.

La Presenza reale

Poco lontano dalla Chiesa del Santo Sepolcro, proprio sulla strada che dal Patriarcato porta alla cattedrale, c’è un artigiano siriano, cristiano ortodosso, che intaglia nell’argento la “nun” araba, un piccolo ciondolo di una piccola collana che racchiude la parola “nazareno”: il simbolo usato dai cristiani del Medio Oriente sterminati dall’Isis. Una lettera che all’origine significa fertilità, derivata dall’aramaico, la lingua parlata da Gesù. Un piccolo segno che richiama una Presenza. A quella Presenza guarda il cardinale, quando ci ha invitati ad un giorno di preghiera e di digiuno per la pace. «Una preghiera che non risolve magicamente i problemi», ricorda, «ma illumina il cammino. Ci fa capire che Dio è presente, è qua. Dobbiamo guardare a Cristo come all’uomo completo, che è qua, presenza reale che tocca la nostra vita. Quando siamo in difficoltà cerchiamo qualcuno che ci aiuti, una persona vicina vicina, che ci aiuti. Reale».

Il cardinale Patriarca ripete spesso questa parola: «Reale». È la realtà che lo spinge a guardare con estremo realismo la situazione in cui vive. Lo aveva detto due anni fa, a Natale, a Betlemme: «Il rispetto di un popolo è un diritto, non una concessione». Il diritto di Israele alla sicurezza e del popolo palestinese a vivere in uno stato libero. In pace. La pace che sembra una condizione necessaria, la prima condizione, proprio quella ora negata dalle circostanze, dal terrorismo. Polverizzata dalle esplosioni in una nuvola di luce, calore e polvere. E in quella polvere i corpi di tante persone.

L’ospedale bombardato

Una pace che si basa sulla giustizia e sulla verità. Le notizie che si accavallano, non controllate né controllabili, sono esattamente il contrario della verità che dovrebbe essere trasparente. Sono avvolte da quella orrida nuvola di polvere umana. L’esplosione dell’ospedale di Gaza, gestito della chiesa episcopale anglicana, è subito oggetto di nuove speculazioni. Per Hamas è la dimostrazione che anche Israele uccide i civili, profughi, bambini, donne, anziani e malati. Un bombardamento in qualche modo speculare a quanto hanno fatto i terroristi della stessa formazione palestinese il 7 ottobre, che hanno assalito i kibbutz massacrando più di mille persone, uccidendo a sangue freddo proprio bambini, donne, anziani, malati.

Ma da Israele giunge un’altra verità e filmati e intercettazioni che accusano del bombardamento un missile lanciato dalla Jihad islamica, formazione alleata di Hamas, dotata di razzi non meno letali ma molto più imprecisi. E nel passato, solo un anno fa, lo abbiamo visto, è già accaduto che un “misfire”, un lancio sbagliato da Gaza ricadesse nella Striscia e uccidesse altri civili, almeno cinque bambini.

Pizzaballa: io in cambio dei rapiti

A Gaza è proibito parlarne e Hamas aveva intimato ai palestinesi chiusi nella Striscia di non dare argomenti ai giornalisti occidentali. I genitori dei bimbi uccisi con cui avevo parlato avevano solo detto: «È la volontà di Dio. Lui accoglie il nostro dolore». Mi avevano colpite quelle parole, dette da due madri. Nessun odio, esattamente l’opposto della rabbia a cui le incitavano i terroristi.

Penso a loro nell’ennesimo “giorno della rabbia” proclamato dai guerriglieri. Ne avevo parlato con Pizzaballa, mentre scendevamo dal Monte degli Ulivi la domenica delle Palme: «Vedi Gerusalemme – aveva detto -, pensa ad un condominio, una casa comune, dove tutti possono, devono vivere insieme. Nessuno può dire: la casa è solo mia. Negare l’altro per affermare se stesso. Così si distrugge, non si costruisce». Era stato profeta.

Ora il cardinale teme l’esplosione del conflitto in tutta la Cisgiordania, preludio ad altri altri nuovi bagni di sangue. Si è offerto come ostaggio al posto dei rapiti, parlando senza enfasi. «Credo che in questo momento il gesto che possa far ripensare ogni peggiore sviluppo è fare in modo che gli ostaggi possano tornare a casa e su questo noi siamo disponibili, ci possiamo impegnare in prima persona, siamo pronti: qualunque cosa possa portare un minimo di de-escalation. Io do la mia disponibilità assoluta, anche a darmi in cambio dei rapiti se questo può portare a casa quei bambini» ha detto e ripetuto a tutti i giornalisti, precisando: «Non abbiamo nessun contatto con Hamas e non giustifichiamo niente e nessuno». Un pastore che non ha paura dell’odore delle pecore, anche quando questo odore è mescolato a quello del sangue e del tritolo.

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