Ora c’è Biden: il Washington Post chiude il database delle bugie presidenziali

Non sono finite fake news e menzogne. Semplicemente è venuto meno il motivo per combattere la post-verità con il fact-checking: adesso il potere è nelle mani "giuste"

Ci siamo persi per strada il gran visir di tutti i fact-checking e quasi non ce ne siamo accorti. Con un misero tweet Glenn Kessler ha annunciato lo spegnimento del glorioso database del Washington Post che per anni ha raccolto e catalogato tutte le bugie del presidente degli Stati Uniti. In quattro anni di Donald Trump, Kessler e i suoi non si sono persi un singolo cinguettio dell’inquilino della Casa Bianca; dopo appena 100 giorni di Joe Biden si arrendono.

Proprio così. «Ecco il database di Biden, che non abbiamo intenzione di portare avanti oltre i primi 100 giorni», ha scritto il capo del mitico “Fact Checker” del Washington Post condividendo un articolo, appunto, sulle “affermazioni false e fuorvianti fatte dal presidente Biden nei suoi primi 100 giorni in carica”.

Una fatica immane

Se non fosse stato per le prevedibili reazioni polemiche dei militanti repubblicani e delle solite testate avversarie (una a caso: Fox News), l’annuncio sarebbe passato praticamente inosservato. Così l’era della guerra senza quartiere alla “post-verità” e delle invincibili armate anti fake news tramonta in questo modo un po’ triste, quasi alla chetichella.

Kessler giustifica la decisione con il troppo lavoro, e naturalmente nessuno mette in dubbio che sia stata una faticaccia ingrata star dietro a un mitragliatore di «fatti alternativi» come Trump. «Mantenere il database per quattro anni ha richiesto circa 400 giornate lavorative extra oltre al lavoro regolare della nostra squadra di tre persone», dice Kessler. Uno sforzo immane insomma. Che tuttavia per lunghi anni non aveva affatto scoraggiato il Washington Post, il quotidiano che nel 2017 sfidò il presidente mentitore aggiungendo in calce alla testata il motto “Demcracy dies in darkness”, la democrazia muore nell’oscurità. Evidentemente adesso qualcuno deve avere acceso la luce, e la resistenza può ben riposare.

La verità è passata di moda

Anche il database delle bugie presidenziali nacque in quel 2017 in cui non si parlava d’altro che di fake news e post-verità. In origine il Fact Checker del Washington Post avrebbe dovuto passare al setaccio solo le sparate dei primi 100 giorni di Trump, poi il team di Kessler ci ha preso gusto. I pinocchietti utilizzati come unità di misura delle menzogne trumpiane hanno fatto tendenza in tutto il mondo. I media italiani ne andavano pazzi e ne hanno tenuto traccia assiduamente per tutto questo tempo (due a caso: Wired e Repubblica), senza mai metterne in discussione l’obiettività. Ricordate quanti a fine gennaio hanno rilanciato la “notizia” che Trump in quattro anni aveva detto «30.573 bugie»? (Uno a caso: il Fatto quotidiano).

E ricordate quale vera e propria mania era diventata il fact-checking? A un certo punto l’Associated Press era arrivata a fact-checkare gli attacchi di Trump contro la «sopravvalutata» Meryl Streep: pure le semplici opinioni del presidente erano diventate bugie da smascherare. Per non dire dei cronisti tv giunti a interrompere i suoi discorsi per un rapido momento fact-checking in diretta. Sempre ovviamente in chiave anti Trump, New York Times e Cnn hanno trasformato la “dura verità” e i “fatti” in claim pubblicitari e loghi per gadget commerciali: la verità sembrava essere tornata di moda, come ricorda Giovanni Maddalena nel numero di Tempi di aprile. Adesso che il presidente si chiama Joe Biden, invece, basta con i database e contatori di bugie. Siete tutti quanti in ottime mani e finalmente possiamo dirvelo: il fact-checking era solo una palla al piede.

Bugie senza fact-checking

La democrazia alla fine se l’è cavata, espulso Trump dai social network le fake news sono crollate (sì, qualcuno si è spinto a sostenerlo seriamente, uno a caso: il Washington Post), Biden nel discorso di insediamento ha detto che bisogna «difendere la verità e sconfiggere le bugie», e tanto è bastato, a quanto pare, perché i partigiani della luce contro l’oscurità si sentissero in diritto di abbassare la guardia. Capite? È finito l’allarme post-verità. «Che strano non dover fare il fact-checking a un discorso presidenziale», ha commentato candidamente un grande modernissimo comunicatore-editore come Markos Moulitsas l’indomani della vittoria di Biden.

Ovvio che non è vero che le bugie sono sparite insieme a Trump. Lo ha spiegato ottimamente di recente Mattia Ferraresi sul Domani. Kessler medesimo dice che il basso numero di «affermazioni false o fuorvianti» fatte da Biden in confronto a Trump nei primi 100 giorni (67 contro 511) non vuol dire nulla di per sé. Quel numero, spiega il responsabile del fact-checking del Washington Post, «è almeno in parte funzione del fatto che le apparizioni pubbliche di Biden consistono per lo più in discorsi preparati vagliati dal suo staff». Soprattutto, Biden «dedica poco tempo ai social media, a differenza del suo predecessore ossessionato da Twitter, e raramente affronta i giornalisti o parla a braccio».

I numeri delle “affermazioni false o fuorvianti” fatte da Joe Biden e Donald Trump nei primi 100 giorni in carica secondo il Washington Post

A chi interessa la verità?

Kessler insomma abbandona il database delle fake news presidenziali faticosamente costruito e puntigliosamente aggiornato in tutti questi anni proprio adesso che, mandato a casa il ballista spaziale Trump, il lavoro del fact-checking promette di diventare più leggero. E proprio adesso che le poche bugie raccontate dal nuovo presidente diventano particolarmente bugiarde, proprio perché poche e proprio perché sempre «vagliate dal suo staff» e raramente sparate «a braccio».

Come abbiamo sommessamente fatto notare fin dall’inizio di questa enorme disputa su post-verità, fake news e dintorni, era inutile illudersi che tutti questi novelli grilli parlanti avessero ricominciato sinceramente a preoccuparsi della verità: invece non hanno mai smesso di preoccuparsi per il proprio potere.

Foto Ansa

Exit mobile version