Olimpiadi: le divise americane sono made in China. «Allora bruciamole»

Quando Nick Symmonds, che correrà a Londra gli 800 metri per gli Stati Uniti, ha scoperto che le divise a stelle e strisce per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi sono “made in China”, ha commentato su Twitter: «Le nostre uniformi della Ralph Lauren per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi sono fatte in Cina? Beh, allora grazie Cina». Era sarcastico, ovviamente. A Pechino, però, non hanno notato la vena ironica di Symmonds e hanno subito fatto scrivere un articolo sul China Daily, la versione inglese del Quotidiano del popolo, megafono del Partito comunista. Tutto il pezzo era improntato su questo tono: «[L’atleta americano] esprime i suoi sinceri ringraziamenti alla Cina».

Ralph Lauren veste gli olimpionici Usa dal 2008 ma non aveva mai fatto produrre le divise in Cina. E ora che figura ci fa il paese? Il senatore democratico Harry Reid ha commentato senza mezze misure: «Penso che dovremmo prendere tutte le uniformi, fare una grande pila e bruciarle, per poi produrne di nuove». Xinhua, l’agenzia statale del Dragone, ha risposto piccata: «I commenti del signor Reid denotano nazionalismo e ignoranza. La furia sulle uniformi olimpiche fatte in Cina è solo l’ennesimo esempio della lotta politica feroce, e a volte ridicola, che va avanti a Washington quando si è vicini alle elezioni».

Gli Stati Uniti sono stati costretti a incassare e Ralph Lauren, dopo la gaffe, per non vedersi togliere l’esclusiva delle divise, ha subito annunciato che quelle per le Olimpiadi invernali del 2014 saranno rigorosamente made in United States. Non solo, un comunicato dell’azienda recita: «Ralph Lauren parlerà con il governo per discutere del tema di come incrementare il settore manifatturiero in America».

Non è la prima volta che gli Stati Uniti si trovano in questa imbarazzante situazione. Nel 2002, anno dei giochi olimpici invernali a Salt Lake City, i tedofori a stelle e strisce che portavano la torcia olimpica si accorsero che vestivano delle uniformi “made in Myanmar”, nuovo nome della Birmania, paese comandato da una giunta militare che ha preso il potere con un colpo di Stato, imprigionato il premio Nobel Aung San Suu Kyi e che in generale non brilla per il rispetto dei diritti umani. Non solo, il paese era anche sottoposto a sanzioni economiche dagli stessi Stati Uniti. Susan Bonfield, tedofora americana nel 2002, commentò: «Quando mi sono resa conto che sull’etichetta c’era scritto “made in Myanmar”, tra un po’ diventavo matta. Se commissioni a una dittatura militare un lavoro che deve rappresentare tutti gli Stati Uniti, qualche problema c’è».

@LeoneGrotti

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