Non si può nascondere una guerra

Se l’Europa «imbelle» vuole evitare nuove Molenbeek e nuovi Bataclan, deve cominciare a dirsi «la verità». Intervista al generale Mario Mori

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Quando accenniamo alla questione più urgente dettata dalla cronaca, il generale Mario Mori porta le mani alle tempie, quasi a scongiurare che i pensieri che stanno per rifluire dal capo alla bocca assumano un tono di fredda razionalità senza cedere alla supplica emotiva. «A proposito dello Ius soli io dico solo di fermarci un attimo e di ponderare bene tutti i fattori della questione. Che si faccia pure una legge, ma si chieda a chi diventa italiano una documentata adesione al nostro modo di vivere, italiano ed europeo». Seduto a un tavolo di una libreria nel centro di Roma, Mori accetta di parlare con Tempi di terrorismo e servizi segreti, i due argomenti cui ha dedicato i suoi ultimi due saggi – «due Bignami», li definisce con modestia – Servizi e segreti. Introduzione allo studio dell’Intelligence (2015) e Oltre il terrorismo. Soluzioni alla minaccia del secolo (2016). Strappargli un commento sui suoi processi è impossibile: «Di quelli parlo solo nelle aule dei tribunali, perché io sono e rimango un uomo di Stato che ha un religioso rispetto delle istituzioni. E poi, questo me lo lasci dire, mi sembra una strategia che sta dando frutto, visti i risultati».

Come dargli torto. Dopo una vita trascorsa a combattere il terrorismo interno e la criminalità organizzata, quest’uomo che è stato comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) e direttore del Sisde (Servizio informazioni per la sicurezza democratica), che può vantare la cattura di personaggi del calibro della brigatista Barbara Balzerani e della “Belva” Totò Riina, ha subìto l’onta di essere accusato di aver favorito quegli stessi criminali cui dava la caccia. Il processo per la ritardata perquisizione del covo di Riina si è concluso con un’assoluzione. Quello per l’accusa di aver favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano si è chiuso con il medesimo esito poco tempo fa, l’8 giugno, quando la Cassazione ha respinto il ricorso della procura di Palermo. Resta da superare ancora quello sulla trattativa Stato-mafia, che, però, dopo l’assoluzione a fine 2015 dell’ex ministro Dc Calogero Mannino, ha visto sgretolarsi la scombiccherata tesi di fondo della procura palermitana.

Oggi, a 77 anni, Mori continua a combattere il terrorismo in una forma diversa, mettendo a disposizione di tutti la propria esperienza sul campo e le proprie conoscenze. «Mi sono messo a scrivere libri – confida a Tempi – perché vedo in giro troppe ricostruzioni puntiformi, che magari colgono un aspetto del problema ma faticano ad affrontarlo nella sua totalità. Per battere il terrorismo occorre conoscerlo, capirlo, studiarlo: dalla sua storia alle biografie dei suoi protagonisti».

Che cosa la preoccupa del dibattito sullo Ius soli che in questi giorni, dalle aule parlamentari ai giornali, vediamo dividere l’Italia?
Sul nostro suolo sono presenti alcune comunità islamiche. Penso che dobbiamo tracciare una linea ben precisa tra la loro presenza e il rispetto delle nostre leggi. Finora, anche a causa di una certa posizione della Chiesa, abbiamo accettato di accogliere tutti, spesso indiscriminatamente. Va bene, ma dobbiamo arrivare ad una regolamentazione. Abbiamo visto fallire il modello multiculturalista inglese e quello repubblicano francese, non dobbiamo commettere gli stessi errori. Finora ci ha salvato il fatto che i soggetti più pericolosi li abbiamo potuti espatriare. Con lo Ius soli cosa accadrà? Invito a meditare sul fatto che in Francia hanno oltre diecimila schedati S (“Fichier S” è il sistema con cui vengono indicati i soggetti ritenuti radicalizzati dalla Dgsi, l’intelligence interna francese, ndr) e non li possono cacciare perché sono cittadini della Repubblica.

Cos’è che noi europei non comprendiamo del fenomeno terroristico?
Purtroppo non abbiamo un problema di comprensione. È peggio, secondo me. L’Europa capisce bene di che cosa si tratta, ma si rifiuta di affrontarlo.

Perché?
Per il nostro senso di colpa “colonialista”. Pensi, solo per rimanere al secolo scorso, all’accordo segreto Sykes-Picot del 1915, quando Francia e Inghilterra si spartirono le spoglie dell’impero ottomano al fine di procacciarsi l’energia del futuro, il petrolio, innescando una serie di fenomeni e reazioni che ancora oggi vediamo in atto in Palestina.

Lei scrive che non si comprende il terrorismo odierno se non si torna al conflitto afghano del 1979.
La guerra in Afghanistan è stata per il mondo musulmano l’input per ridare vigore all’idea della umma, un’unica grande comunità islamica in cui le leggi civili e religiose coincidono. È col conflitto afghano che compaiono i mujaheddin, si organizzano i campi di addestramento, nasce Al Qaeda. Osama Bin Laden, in fondo, non ha fatto altro che tentare di battere gli Stati Uniti con lo stesso schema con cui erano stati sconfitti i sovietici: per “estenuazione”. Osama pensava che, provocato il nemico con l’attacco alle Torri Gemelle e attirato su un territorio ostile, l’avrebbe logorato in battaglia. Il piano non ha funzionato: prima con la guerra ai talebani, poi con quella in Iraq fino all’uccisione di Osama, gli americani hanno vinto. Ma hanno commesso un gravissimo errore pensando che per far rinascere l’Iraq bastasse sostituire la classe dirigente sunnita con quella sciita. Gli sciiti, sebbene siano la maggioranza, non erano preparati, non erano istruiti, colti e in grado di gestire il paese. S’è creato un vuoto.

E in politica il vuoto non esiste.
A nord hanno ripreso vigore i curdi, nel resto del paese i sunniti si sono riorganizzati, prima con al-Zarqawi e poi con al-Baghdadi. Il resto è storia recente, con la conquista di Mosul e lo sconfinamento in Siria, fino ad arrivare a Kobane, sul confine turco.

Le ultime notizie dal fronte ci raccontano di uno Stato islamico in difficoltà dal punto di vista militare.
Penso abbia i giorni contati. Siamo arrivati a Mosul e a Raqqa. Ma invito a essere molto cauti con i festeggiamenti. Molti superstiti dell’Isis si stanno trasferendo verso il Sahel e il Sinai, futuri focolai di conflitti. E c’è un fatto ancora più importante da tenere in considerazione: con al-Baghdadi il sogno di rivincita è stato acceso e non si spegnerà presto.

Questo è un concetto che lei ripete spesso: “Attenzione, dopo al-Baghdadi ci sarà un nuovo al-Baghdadi”.
Ce ne sarà più d’uno. Non più un Califfato ma tanti Califfati.

Dove?
Nel Sinai, come dicevo, e in Asia.

Perché in Asia?
In prospettiva, è quella l’area più instabile e quindi la nuova meta dei terroristi. È un’osservazione quasi banale: dove c’è instabilità è più semplice agire. Lo vediamo in Siria, in Egitto, in Libia. Il mondo arabo è in uno stato di crisi permanente: con un numero assai ridotto di uomini, come è il caso dell’Isis di al-Baghdadi, si può volgere la situazione a proprio favore. Tuttavia il petrolio, che è lo “svantaggio” dell’area mediorientale, è anche il suo vantaggio. Sia le potenze regionali – Iran, Turchia, Arabia Saudita – sia quelle internazionali hanno tutto l’interesse, ad un certo punto, a trovare una soluzione. Ritengo che un compromesso si troverà, o perlomeno si cercherà di trovarlo. Nella fascia subsahariana o in Asia gli interessi sono minori e, dunque, è probabile che gli uomini del Califfo si dirigano lì per dare corpo ai loro sogni di conquista.

Lei insiste sempre sul fatto che siamo in guerra e che, dunque, come in guerra ci dobbiamo comportare.
Distinguiamo. Gli Stati Uniti sono in guerra e ne sono consapevoli, tant’è vero che la loro risposta è militare. Certo, è una guerra asimmetrica, ma è una guerra. Usano le truppe e, soprattutto, forze speciali e tecnologiche come i droni. L’Europa, invece, ormai è imbelle. Tutti i capi europei, nei fatti, non combattono il terrorismo. Settant’anni di pace ci hanno fatto diventare una potenza economica, ma non militare. Bene, combattiamo allora, almeno, su questo terreno. Smettiamo di sostenere economicamente quegli Stati che sappiamo fiancheggiare i terroristi.

Volendo fare dei nomi?
Arabia Saudita, Qatar, Turchia.

E per il futuro? Lei scrive che ci dobbiamo arrendere a vivere come in Israele, cioè rinunciando a parte delle nostre consuetudini e libertà per sottoporci a più stringenti misure di sicurezza.
Le racconto un aneddoto. Mi capitò di trovarmi all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv e di essere io, capo dei servizi segreti italiani, in compagnia del capo del Mossad. Ero con lui, ma questo non mi esentò dal sottopormi ai controlli di routine. Anche io dovetti togliermi scarpe e calze e subire una perquisizione.

L’esempio è chiaro, ma lei comprende che noi, abituati a muoverci e commerciare in assoluta libertà, non accettiamo facilmente limitazioni di questo tipo.
Ma che altro deve accadere, scusi? Che differenza c’è, ormai, tra quello che accade in Israele con l’Intifada e quel che accade nelle strade di Parigi? Non dico che dobbiamo militarizzare la nostra vita, ma occorre rinunciare a un po’ di libertà per garantire la sicuerzza. È un discorso difficile da fare, lo so, ma penso che, chi di dovere, dovrebbe farlo.

A chi pensa?
Ai nostri politici, alla nostra classe dirigente, innanzitutto. Evitando allarmismi, parole di verità andrebbero pronunciate. Bisogna convincere la popolazione che una serie di controlli sono necessari.

Perché in Italia non c’è ancora stato un attacco come a Parigi, a Londra, a Bruxelles? Concorda sul fatto che ormai non è più questione “se” questo avverrà, ma solo “quando”?
Sì, un po’ lo penso, credo che sia solo questione di tempo. Però, per rispondere alla sua domanda, aggiungo anche che noi abbiamo, rispetto ai nostri vicini europei che hanno già subìto questi attentati, una serie di vantaggi. Il primo riguarda la nostra storia: non abbiamo avuto un passato coloniale importante come quello francese o inglese. Questo ci preserva da un certo risentimento “storico” nei nostri confronti e ha fatto in modo che un numero importante di abitanti di quelle colonie non siano emigrati sul nostro territorio. Il secondo motivo riguarda l’abilità delle nostre forze di polizia e dei carabinieri che, per capacità di prevenzione, sono le più efficienti in Europa. E questo perché, a partire dal secondo dopoguerra, abbiamo imparato ad affrontare il terrorismo interno e la criminalità organizzata.

Da noi non si verificherà mai un attacco come al Bataclan di Parigi?
Penso di no. Per le ragioni dette prima e perché da noi non c’è lo stesso consenso diffuso rispetto all’ideologia jihadista che c’è in altri paesi. Da noi, non esistono quartieri come Molenbeek in Belgio. Esistono periferie difficili, ma niente di paragonabile alle banlieue francesi. Nelle nostre città non abbiamo le stesse concentrazioni di comunità islamiche che esistono all’estero e questo perché il nostro territorio è maggiormente frammentato in tanti piccoli comuni, è più parcellizzato e chi arriva si sparpaglia. Quel che è da evitare sono, appunto, le grandi concentrazioni, i quartieri ghetto, le città nelle città. Per ora è così, ma non penso durerà molto. Soprattutto in quei territori che attirano stranieri, come Lombardia e Veneto. Nei prossimi anni potremmo essere chiamati ad affrontare situazioni inedite.

Quando si parla di terrorismo, si finisce col parlare di servizi segreti e intelligence. Attività reclamate da tutti, soprattutto quando, dopo un attacco sentiamo, riecheggiare il ritornello che “non serve una guerra, ma più intelligence”.
La verità è che in Italia di servizi segreti non ci capisce niente nessuno e, sì, è vero, soprattutto i politici ne chiacchierano a sproposito. Ne ho conosciuti solo due che ne parlavano con cognizione di causa: il presidente Francesco Cossiga e l’attuale ministro degli Interni Marco Minniti.

Come giudica il lavoro di Minniti?
Sta cercando di scindere il problema del terrorismo dalla questione dell’immigrazione che, nei suoi intenti, è da risolvere nei paesi d’origine. Sta facendo un buon lavoro, ma una soluzione non potrà essere trovata solo grazie ai pur lodevoli sforzi di una persona. Occorre il coinvolgimento di altri partner europei.

A proposito di servizi segreti, lei ha parlato della “Sindrome Giovannone”, riferendosi a quanto accadde al colonnello Stefano Giovannone negli anni Settanta quando, prima, fu segretamente incaricato di prendere contatti coi terroristi palestinesi dell’Olp per evitare che attaccassero sul nostro territorio e, poi, una volta divenuto pubblico il patto, fu scaricato dalle nostre istituzioni. Oggi i nostri servizi temono di non avere le spalle coperte dai politici?
Qualcosa è cambiato da allora, soprattutto grazie alla legge 124/2007, ma resta il problema di fondo di fare in modo che i servizi operino su una linea di confine e in una zona grigia che ha dinamiche e logiche tutte sue. Sono segreti, costano, sono un lusso, non sono la polizia giudiziaria. O concediamo loro una certa elasticità o non servono a nulla. Oggi esiste anche un problema meramente organizzativo legato al fatto che ogni tre anni il governo nomina un direttore nuovo. Quello è un ruolo delicato che necessita grande esperienza e un certo periodo di tempo per impostare un lavoro che sia efficace. È un ruolo che andrebbe ricoperto non dal primo che passa, ma all’apice della carriera, con un cursus honorum adeguato.

Domanda provocatoria: in Italia esistono solo i servizi segreti “deviati”? Sui giornali si parla solo di quelli, imputando loro tutti i misfatti del paese.
Questa è una sciocchezza che mi fa sempre molto arrabbiare. I servizi sono un’istituzione, al pari della magistratura e dei vigili del fuoco. Un’istituzione non è “deviata”, al massimo possono esserlo alcuni dei suoi uomini. Ma allora si dica chi sono e cosa hanno fatto, si facciano nomi e cognomi. Purtroppo spesso la nostra stampa vive e divulga stereotipi, leggende e favole.

Lei ha scritto che in Italia servirebbe una magistratura specializzata nella lotta al terrorismo. Perché?
Perché ho vissuto sulla mia pelle il disfacimento di indagini eccezionali, storpiate e devastate da alcuni magistrati incompetenti che, forse per pavoneggiarsi davanti ai giornalisti e all’opinione pubblica, le hanno gettate alle ortiche. Di fronte a un fenomeno complesso come il terrorismo occorre un background specifico che permetta di capire chi sono e come si muovono i soggetti pericolosi. È il refrain di tutta la nostra chiacchierata: per affrontare questa guerra servono persone specializzate e coraggiose. Gli incompetenti non fanno altro che aumentare i danni.

Foto Ansa

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