«Non lasciatevi rubare da nessuno questa amicizia»

Cronaca dell'incontro milanese tra monsignor Luigi Negri e Sergio Belardinelli. «La questione principale del nostro tempo è la riduzione della verità a opinione»

Conoscere la storia è necessario per dare consistenza alla propria identità, a maggior ragione ciò vale per i cristiani, per natura impegnati nel dialogo col mondo. Ne è convinto monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara e Comacchio, che è intervenuto giovedì 28 gennaio a Milano per presentare il suo ultimo libro Il cammino della Chiesa, presso la Sala Teatro Carlo Verga adiacente la Chiesa di san Carlo alla Ca’ Granda. L’evento è stato organizzato da Edizioni Ares, la Fondazione internazionale Giovanni Paolo II e Fondazione Tempi e ha visto la presenza del professore Sergio Belardinelli, mentre il secondo appuntamento sarà il 25 febbraio con il senatore Marcello Pera.

Questo libro, che Belardinelli non ha esitato a descrivere come un «affresco culturale e teologico», scritto da una penna che ha il pregio di «irritare» il lettore, «ha il merito di porre una questione cruciale fin dalle prime pagine e lo fa sostenendo la tesi secondo cui la caratteristica più importante dell’antropologia senza Dio, tipica del nostro tempo, è innanzitutto la riduzione della verità a opinione».

«A mio avviso sta proprio in questa riduzione della verità a opinione il tratto più eclatante e devastante della cultura in cui noi oggi viviamo», ha spiegato Belardinelli, «perché il cristianesimo ha assolutamente bisogno di una cultura dove sia presente il senso della verità» per comunicarsi.

Secondo il filosofo «è possibile che laddove ci sia un forte senso della verità, come nel mondo greco, non ci sia il cristianesimo, ma è impensabile che prenda piede e si sviluppi una cultura cristiana in un contesto in cui non ci sia il senso della verità, dove non sia chiara la differenza tra ciò che è vero e ciò che è falso».

«Non a caso, tutti gli ultimi grandi Papi – ha proseguito Belardinelli – hanno intuito che la questione della verità è il banco di prova di tutte le altre grandi questioni: la questione antropologica, la questione educativa, le questioni bioetiche, il nichilismo, la perdita di senso della libertà, la supremazia del benessere». Fino alla «biopolitica, che oggi pretende di definire quando una vita sia degna di essere vissuta».

Belardinelli ha spiegato l’importanza di avere coscienza della propria identità in un simile contesto, anche per i cristiani, in modo particolare quando ci si trova di fronte al dialogo con l’altro. E l’ha fatto con l’esempio del traduttore: «Il più bravo traduttore – ha detto – non è tanto quello che conosce bene la lingua che deve tradurre, ma quello che è padrone della propria lingua, perché è in grado di rendere in modo migliore ciò che l’altro sta dicendo».

In questo senso, ha ricordato Belardinelli, «la storia della Chiesa non è la storia di un’istituzione qualsiasi», ma bisogna guardarla in virtù di quell’eccedenza che è Gesù Cristo». «E grazie alla storia della Chiesa anche la storia laica può avvantaggiarsi di questo sguardo per imparare a vedere cose di cui diversamente non si accorgerebbe». E «cos’è che potrebbe vedere? Quello che monsignor Negri descrive come il senso del mistero che l’uomo ha di se stesso e della Chiesa».

«Ho cominciato a interessarmi alla storia della Chiesa durante il liceo», ha esordito Negri di fronte a una platea di duecento persone, composta di giovani, parrocchiani e nonni duepuntozero, «confortato e incoraggiato da don Giussani, perché la storia della Chiesa fa corpo con l’umanità di Cristo, che non continua nel mondo nella parola scritta. Come dice San Gerolamo – ha aggiunto – la parola scritta c’è perché uno recuperi sempre più la verità di ciò che gli è stato annunziato». Nemmeno, ha precisato l’arcivescovo, quella di Cristo è una presenza che «continua nelle pratiche di pietà o nelle iniziative morali che il cristiano assume».

«Cristo continua nel mondo nel Suo popolo», ha spiegato l’arcivescovo di Ferrara, «e se continua nel mondo nel suo popolo, l’elemento storia è determinante. Come ha ricordato una volta Giussani», ha rilanciato Negri, «noi viviamo la fede “qui e ora” perché duemila anni fa si è verificato un avvenimento che aveva ed ha in sé l’energia e la forza per arrivare fino ad ora».

«Se il cristianesimo fosse un impegno di carattere caritativo o sociale», ha ribadito Negri, o «se la fede fosse il sentimento che ho di Cristo adesso, che recupero attraverso emozioni di carattere psico-affettivo, non ci sarebbe nemmeno bisogno della storia». Mentre «ce n’è bisogno perché senza storia e senza la conoscenza della storia, l’avvenimento della fede diventerebbe debolissimo».

Se è vero che «la Chiesa è un popolo», ha ripreso l’arcivescovo, «il popolo ha la dimensione storica e lo svolgimento che questo popolo ha vissuto, nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore, entra a far parte della mia fede oggi, che è forte del cammino di Cristo fin qui e da qui nasce un futuro». Perché «il tempo è essenziale per l’uomo».

Secondo monsignor Negri, i cristiani devono avere coscienza che oggi «si trovano dentro la stretta della riduzione dell’avvenimento di Cristo a sentimento, da un lato, e del cristianesimo a impegno di carattere moralistico, dall’altro. O luterani o calvinisti! Questo è il destino di una Chiesa che non prende coscienza della storia», ha ammonito il porporato.

«Mi sono occupato della storia per dare consistenza alla mia identità», ha rilanciato l’arcivescovo di Ferrara, spiegando che «il dialogo è l’espressione di un’identità forte. E un’identità è forte quando ha delle ragioni». Per questo motivo, ha detto Negri, «noi dobbiamo lavorare sulla nostra identità e questo lavoro si chiama culto della verità, amore alla verità, che è Cristo». Si tratta di quella «ricerca del vero», che, «come la definiva Giussani, è inesorabile e inesauribile». «Si lavora sull’identità perché la mia identità è quello che Cristo ha rivelato a me di me stesso e all’uomo di sé».

Ma come si lavora sull’identità? «Sorprendendone la crescita in una appartenenza», ha affondato l’arcivescovo, «tenendo conto di tutti i fattori». «Ecco perché mi interessa la storia della Chiesa, tanto quella delle missioni nel XVI-XVII secolo quanto quella del periodo orrendo del giacobinismo e della Rivoluzione Francese». Ma anche «la presenza dei monaci benedettini che ha coinciso con la nascita della società e della cultura in Europa, re-insegnando a coltivare la terra e mostrando con la loro vita che, nei monasteri, c’erano spazi concreti per una convivenza benevola mentre ci si ammazzava per le strade come accade oggi». Una presenza così incisiva da indurre «Papa Gregorio a strutturare le diocesi in base a dove c’erano i conventi».

«Conoscere la storia della Chiesa», ha aggiunto l’arcivescovo, aiuta anche a «chiedersi di fronte ad ogni momento di questa storia, grande e terribile, fatta di santi e peccatori, se in quel momento la Chiesa ha voluto l’unica cosa che deve amare e volere: la missione». Perché «l’immoralità della Chiesa è il tradimento della sua identità». E «di fronte a momenti di involuzione nella vita sociale di un Paese, non è possibile che la Chiesa taccia; se tace tradisce il suo mandato di annunziare Cristo, via, verità e vita». Un compito che essa deve perseguire «senza contrapporre annuncio e testimonianza personale». Perché «le due cose stanno insieme, come ci insegna il gesto più particolare della sua storia, l’Eucaristia, il gesto più personale e intimo di ciò che lega la Chiesa al Signore e ciascun membro al Signore». L’Eucaristia, che «è dove la Chiesa vive la fedeltà più assoluta a Cristo, rifiutando, per oltre duemila anni di storia, ogni tentativo di riduzione, compresa quella luterana».

La formula con cui si chiude la Messa, «Ite, missa est», ha concluso monsignor Negri, «ci ricorda che l’Eucaristia è fonte di missione e la missione è fonte di una presenza pubblica». Come a dire che laddove «è finita la Messa, lì comincia la missione». Anche «di fronte alle circostanze inevitabili, che, se è vero che non le abbiamo decise noi, spetta a noi giudicare, altrimenti significa che condividiamo la logica con cui sono poste».

Tutto ciò, ha puntualizzato l’arcivescovo di Ferrara, sempre consapevoli che «l’esperienza più grande che accomuna le nostre generazioni» è «l’amicizia in nome di Cristo» e «non perché si è sempre d’accordo su tutto». Certi che «le cose vincolanti nella vita ecclesiale sono poche. Certi, di alcune grandi cose, come ci insegna una delle più belle Tischreden di don Giussani, che sono il suo magistero in università». Finanche nella «discrezionalità e pluralità di posizioni» e ben sapendo che l’unica «cosa che ci rende uniti al Mistero di Cristo è l’affezione a Lui e questa amicizia, che non nasce della carne e dal sangue, ma che il Signore ha generato attraverso il Suo spirito. Non lasciatevi rubare da nessuno – ha affondato Negri – questa amicizia. Perché, molto più di quanto voi non crediate, l’ultimo giorno, non sarete giudicati sulla coerenza più o meno limpida ai dettami della morale cattolica, ma sarete giudicati sulla fedeltà a questi gesti che Dio ha assimilato nella vostra vita e di cui avete dovuto o dovete prendervi ogni giorno la responsabilità».

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