«Mio marito James aveva la Sla, ma voleva vivere. Invece i medici lo hanno soffocato»

Carol Mungas racconta a tempi.it la storia del marito James di come «lo hanno ucciso in modo compassionevole» e del «piccolo miracolo» che la sua malattia ha rappresentato.

Quando gli è stata diagnosticata la malattia di Lou Gehrig, la Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), James Mungas aveva 58 anni ed era uno stimato chirurgo di Great Falls, Montana, Stati Uniti. A due anni dalla diagnosi ha cominciato a parlare a fatica e a incespicare, fino a quando non è rimasto paralizzato, incapace di muoversi e comunicare, se non con un dito, con il quale scriveva sull’iPad. James è morto il 19 gennaio 2011, in un hospice di Great Falls, all’età di 66 anni ma non per il normale decorso della malattia: «Lo hanno ucciso con una forma di eutanasia» ha raccontato la moglie Carol in una lettera al quotidiano Great Falls Tribune il 14 marzo scorso, intervenendo così nel dibattito sul suicidio assistito che è in corso nello Stato del Montana. Carol, che ha accettato di raccontare la sua storia a tempi.it, non è un’attivista pro life ma una donna che ha visto suo marito «morire soffocato mentre cercava invano di chiedere aiuto», che ha paura del suicidio assistito perché «è molto facile convincere le persone, quando sono fragili, che è meglio farla finita» e che sa «che la vita è sempre degna di essere vissuta perché pur essendo una situazione difficile, frustrante e faticosa la malattia di mio marito è stata per noi e per i nostri amici un piccolo miracolo e una benedizione».

LA RICHIESTA DI JAMES. Prima di entrare nell’hospice James faceva già fatica a deglutire «ma non ha mai voluto nutrirsi con il sondino nasogastrico», soffriva a causa della Sla «ma ha sempre detto al suo medico che non voleva essere riempito di morfina per essere sempre cosciente e vivere con la sua famiglia ogni giorno che gli restava». James è sempre rimasto a casa, curato dalla moglie, fino a quando dopo Natale, racconta Carol, «non sono dovuta andare fuori città per un giorno e mezzo per curare degli affari per mia madre, che vive in una casa di riposo. Per questo ho portato mio marito all’hospice perché fosse curato in regime di “respite care”», cioè un servizio che garantisce cure temporanee alle persone malate o con forti disabilità che solitamente sono accudite a casa.

IL PRIMO ERRORE. L’11 gennaio del 2011 James è entrato nell’hospice, dove è morto il 19 gennaio. I problemi sono cominciati subito: «La prima mattina ha chiesto la colazione ma i medici hanno commesso un errore: non gli hanno dato le medicine di cui aveva bisogno per facilitargli la deglutizione e così, vedendo che non riusciva a mangiare, invece che ammettere l’errore hanno decretato che non poteva più mangiare e hanno cominciato a trattarlo come un paziente normale dell’hospice e non come uno in “Respite care”: non gli hanno più portato cibo né acqua, dandogli invece massicce dosi di morfina».

«CI METTERÀ MOLTO A MORIRE». James si accorge della dose eccessiva e chiede aiuto scrivendo sul suo iPad. «Io ho sposato un medico ma non sono un medico – spiega Carol – e quindi non sapevo che la morfina compromette l’apparato respiratorio». Dopo insistite richieste, James viene visitato da uno pneumologo, che mette in atto una terapia per aiutarlo a respirare ma «ormai aveva subito danni gravi ai polmoni».  Nonostante questo «l’infermiera ha sempre continuato a dargli morfina, bastava spingere un bottone nel quadro dei comandi vicino al suo letto, e ha anche detto ai miei figli di spingere quel bottone ogni quindici minuti. Quando noi ci siamo resi conto che non faceva bene a James abbiamo smesso, ma l’infermiera stessa veniva a somministrargliela». Intanto, per tre giorni, a James non è stato portato niente da mangiare e da bere. «Vedevo che soffriva ma non sapevo che cosa fare. La terza notte l’infermiera è entrata nella stanza e mi ha detto: “Suo marito ci metterà molto a morire”. Io a quelle parole sono rimasta sconvolta, non capivo che cosa intendesse».

«MI HANNO LASCIATA SOLA». Carol si è resa conto delle difficoltà del marito ma non sapeva come reagire: «Nessuno mi aveva informato degli effetti collaterali della morfina. Vedendolo stare male, ho chiamato il nostro medico perché lo visitasse ma mi hanno detto che non poteva visitare nell’hospice, allora ho chiamato il dottore dell’hospice ma mi hanno detto che faceva il suo giro di visite solo una volta a settimana e che non era disponibile. Sono stata lasciata sola senza sapere che cosa fare per aiutarlo. E l’hanno ucciso».

FORMA DI EUTANASIA. Ma com’è possibile che i medici non sapessero che la morfina stesse soffocando James? Questa è la domanda che Carol si è fatta «a lungo», fino a darsi questa risposta: «Gli hanno imposto una forma di eutanasia», convinti che per lui «fosse meglio morire» in quel modo che restare vivo con la Sla. «Io credo che dietro a quanto accaduto ci sia una mentalità precisa. L’infermiera diceva a mio figlio: “Se non vuoi vedere tuo padre soffrire, premi questo bottone e così non sentirà dolore”. Io credo che chi lavora con i malati terminali dia loro elevate dosi di morfina così sembra che stiano dormendo e possano dire alle famiglie che non stanno male. Ma nel caso di James loro non l’hanno guardato nella sua individualità. Lui non voleva perdere coscienza, gliel’aveva detto, ma non l’hanno ascoltato». Anzi: «Non avevano il diritto di dargli una dose eccessiva di morfina perché non sono loro che devono decidere quanto una persona può soffrire. Io ci ho pensato molto: i medici non hanno fatto niente per salvarlo e lui non è morto in pace, ma soffocando mentre chiedeva aiuto». Perché non hanno fatto niente? «Io credo che si siano sbagliati a dargli troppa morfina fin dal principio e poi abbiano continuato per coprire il loro stesso errore».

SUICIDIO ASSISTITO. E pensando al Montana, dove si sta discutendo l’introduzione del suicidio assistito, Carol ammette: «Sono spaventata, dopo che ho scritto la lettera al giornale, un sacco di persone mi hanno rintracciata raccontandomi esperienze simili. C’è un problema di sicurezza pubblica: le persone fragili possono essere facilmente convinte a dare il loro consenso a morire, ma non è vero consenso. Se uno ti dice mentre sei debole e stai male: vuoi continuare a soffrire? Tu rispondi che no, non vuoi andare avanti così, ma questo non significa che vuoi morire. È anche facile convincere i parenti, in un momento di sconforto, che la cosa migliore per il loro familiare è la morte. Dare questo potere ai medici è una strada pericolosa». Il perché, lo ricava dalla storia di suo marito: «Molti medici pensano che la cosa migliore per un malato come lo era mio marito sia la morte. Per questo gli hanno dato dosi eccessive di morfina. Erano convinti che fosse compassionevole agire così. Io ho provato a chiedere aiuto, ma nessuno mi ha ascoltato, ero impotente. Ma loro non sanno sempre che cosa è meglio e un caso che è successo a mio marito lo dimostra».

DA SPACCIATO A NAVY SEAL. «C’era un ragazzo giovane che aveva circa 11 anni – racconta Carol – ridotto in condizioni gravissime dopo un incidente. È arrivato all’ospedale di James incosciente, i medici hanno detto alla famiglia che non avrebbe potuto camminare mai più e che temevano che avesse subito gravi danni anche al cervello». A quel punto la famiglia, «non volendo per loro figlio una vita sulla sedia a rotelle», pensa che forse «la cosa migliore era non intervenire e lasciarlo morire. Hanno chiamato per un consulto mio marito, che era chirurgo, ma lui ha detto ai genitori di non abbandonare la speranza perché “non si sa mai cosa può succedere, proviamo a curarlo”. Bene, sei mesi prima che mio marito morisse, circa 13 anni dopo quel fatto, quel ragazzo, ormai uomo, è venuto a casa nostra. Lui oggi fa parte dei Navy Seals e si sa che bisogna essere in condizioni fisiche e mentali perfette per potere entrare in quel corpo. Era venuto a casa nostra solo per dire grazie a James. Il ruolo dei dottori non è quello di aiutare i pazienti a morire, ma di curarli perché vivano».

MALATTIA? UNA BENEDIZIONE. E se quel ragazzo, invece che diventare un Navy Seal, fosse rimasto per tutta la vita sulla sedia a rotelle? «La sua vita sarebbe stata degna è sempre degna di essere vissuta comunque – insiste Carol – e anche questa cosa l’ho imparata da mio marito. James, ogni giorno, nonostante le difficoltà, accettava quello che veniva con gratitudine. Tutto destava il suo interesse. Pensi che per l’ultimo Natale ha voluto un libro di 800 pagine da leggere: e sapeva benissimo quanta fatica gli sarebbe costato leggerlo. Ma voleva passare i suoi ultimi giorni vivendo, non morendo, anche se era paralizzato». Oggi, però, «la nostra cultura va in un’altra direzione: abbiamo cominciato a uccidere i bambini quando non ci facevano comodo e ora uccidiamo i vecchi, perché pensiamo sia la cosa più compassionevole da fare». Ma non è così: «Come ho sempre detto ai miei figli e ai miei amici, non è vero che questa malattia è stata un peso, una maledizione. È stata difficile, frustrante, faticosa ma ci sono stati dei piccoli miracoli. Grazie alla malattia, per mio marito tutto ha cominciato ad assumere valore, anche le piccole cose. Quando gli amici venivano a trovarci, pensavano di trovare un ambiente triste e invece uscivano più felici di prima. E poi c’è la cosa più importante: prima che mio marito morisse, abbiamo raggiunto un livello nel nostro rapporto così profondo e significativo da essere impensabile. Senza la malattia non l’avremmo mai scoperto e vissuto. Ecco perché, pur rimanendo la Sla una cosa orrenda che non auguro a nessuno al mondo, dico che è stata davvero un piccolo miracolo, una benedizione».

@LeoneGrotti

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