Me li vedo già, lesbiche, femministe e trans in piazza “uniti” contro l’omofobia

La cosa che fa più ridere del ddl Zan-Scalfarotto è l'idea di istituire una giornata contro omofobia, lesbofobia, bifobia, transfobia e pure misoginia. Avete presente quanto si odiano questi mondi fra loro?

La lettura del testo unificato del ddl Zan-Scalfarotto contro la cosiddetta omotransfobia è motivo di tristezza e di preoccupazione, perché emergono inconfondibili i connotati di un provvedimento che non difende affatto persone deboli in condizione svantaggiata, ma istituisce reati di opinione e pretende di imporre a tutti gli italiani un modello culturale immune a qualsiasi critica.

C’è però un passaggio che suscita un’irrefrenabile ilarità, la quale non appena si placa viene di nuovo resuscitata dalla dichiarazione dell’onorevole Alessandro Zan (Pd): «Ho appena depositato il testo base della proposta di legge contro l’omotransfobia e la misoginia». Il passaggio in questione è l’articolo 5 del disegno di legge, che prevede l’istituzione della giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia.

Me lo vedo già questo bell’allineamento di esponenti del mondo gay, lesbico, transessuale e, visto che la legge combatte anche la misoginia, femminista, tutti in fila sotto alla bandiera italiana che sventola nella brezza primaverile (la data prevista è il 17 maggio) insieme al sindaco, al prefetto e al vescovo. Ma c’è un problema che chi ha sognato questo sogno non si è minimamente posto: e cioè che femministe e lesbiche da una parte, transessuali e transgender (quelli che una volta si chiamavano travestiti) dall’altra potrebbero facilmente venire alle mani.

Gli esponenti dei partiti di sinistra dell’attuale maggioranza di governo coltivano l’illusione di un mondo dove tutte le vittime di discriminazioni legate al sesso si danno la mano e fanno il girotondo, ma la realtà è che da tempo alcune di queste vittime si stanno accapigliando fra loro per stabilire chi discrimina chi. Due sono gli oggetti del contendere: chi debba essere definito una “vera donna” e quindi disporre di tutte le prerogative che a tale identità si ricollegano; chi abbia diritto di interpretare e rappresentare la realtà transessuale.

Le più recenti notizie di cronaca che mettono a fuoco il conflitto in corso su questi due punti sono in Italia la richiesta di espulsione di Arcilesbica dall’Arci firmata da 3 mila esponenti di circoli Lgbt (giugno scorso) e negli Stati Uniti la rinuncia di Halle Berry a interpretare in un film il personaggio di un uomo transessuale a causa della levata di scudi da parte di associazioni Lgbt (7 luglio).

Arcilesbica è accusata di omofobia perché è contraria all’utero in affitto e di transfobia perché sostiene che le donne transessuali e i transgender non devono poter occupare posizioni riservate alle donne biologicamente intese. Halle Berry è stata criticata in nome del fatto che il personaggio di un uomo transessuale non può essere interpretato da una donna che si riconosce nella sua identità di genere (cisgender, secondo l’orribile gergo corrente), come l’attrice afroamericana aveva in programma.

Chi pensa che queste siano solo beghe di cortile amplificate dai media, dovrebbe dare un’occhiata agli articoli di Monica Ricci Sargentini sul Corriere della Sera che danno conto delle minacce legate al conflitto interno all’Arci che vengono fatte alle militanti di Arcilesbica e che non hanno affatto la stessa eco mediatica delle minacce omofobiche. Sul profilo Instagram di una di esse è stato recentemente scritto: «Attenta quando torni a casa la sera, che se ti becchiamo finisci con una mazza in ogni buco».

E dovrebbe dare un’occhiata all’umiliante abiura di Halle Berry, che sembra presa dai verbali di un processo staliniano o di un procedimento della Santa Inquisizione: «Come donna cisgender ora comprendo che non avrei dovuto prendere in considerazione quel ruolo e che la comunità transgender dovrebbe assolutamente avere la possibilità di raccontare le proprie storie. Ringrazio per i consigli e la conversazione critica degli ultimi giorni e continuerò ad ascoltare, imparare e crescere a partire da questo errore. Desidero essere un’alleata [della causa Lgbtq, ndt] e utilizzerò la mia voce per promuovere una migliore rappresentazione [dei trans, ndt], su schermo e dietro la cinepresa».

Non si tratta di casi isolati, e i firmatari del ddl Zan-Scalfarotto o sono disinformati, o partecipano a un complotto per la disinformazione dell’opinione pubblica. La lista delle giornaliste e commentatrici anglosassoni femministe che affermano che le donne trans non possono essere considerate donne alla stessa stregua delle donne che sono nate tali, e che per questa loro presa di posizione sono insultate, minacciate e in qualche caso aggredite è già piuttosto lunga.

Queste femministe obiettano al fatto che alle transessuali sia consentito di fare le counsellor nei centri di assistenza per donne stuprate, di essere internate nelle carceri femminili (dove si sono già avuti casi di detenute sessualmente assalite da donne transessuali, in Inghilterra e negli Stati Uniti), di rappresentare le studentesse nelle organizzazioni scolastiche e universitarie, o nelle federazioni femminili di partiti e associazioni politiche, di partecipare agli sport agonistici nelle categorie riservate alle donne e più in generale di occupare posti nelle “quote rosa” di imprese e organismi politici. Tutte cose che nei paesi anglosassoni sono diventate moneta corrente, ma non senza le inevitabili controversie, e non senza escalation di tensioni che sconfinano nella violenza.

Nel settembre 2017 alcune femministe cosiddette Terf (femministe radicali trans-esclusioniste) sono state prese a pugni da militanti transessuali per aver cercato di tenere un incontro pubblico allo Speakers’ Corner di Hyde Park a Londra contro una legge pro-trans che non condividevano; durante gli scontri è stato gridato lo slogan “uccidi tutte le Terf!”.

Nel giugno dell’anno scorso la giornalista femminista e lesbica Julie Blindel è stata aggredita all’uscita di una conferenza che aveva tenuto presso l’Università di Edimburgo, contestata da militanti trans nella piazza antistante la sala dove si svolgeva l’incontro. La persona che l’ha aggredita aveva scritto un tweet col seguente messaggio: «Tutti gli alleati dei trans al #PrideLondon devono cacciare la spazzatura terf. Spaventatele, andategli sotto la faccia, il dibattito con loro non funziona quindi fategli del male». Dopo questo episodio i 12 membri del comitato del Pride Network dell’Università di Edimburgo si sono dimessi, ma non in segno di solidarietà con la relatrice aggredita, bensì per protestare contro chi aveva autorizzato il convegno sulla violenza contro le donne al quale era intervenuta la Bindel «mancando così di prendere posizione contro l’odio transfobico nel campus»!

Alla luce di questi pochi esempi, si può immaginare in quali terribili dilemmi si troveranno pm e giudici italiani se verrà approvato nella forma attuale il ddl Zan-Scalfarotto. Quando una femminista italiana protesterà perché un posto in quota rosa è stato assegnato a una donna transessuale anziché a una donna nata tale, ed esponenti o simpatizzanti della causa trans la accuseranno di odio transfobico e chiederanno che venga espulsa dall’Arci, cosa dovranno fare i nostri giudici e pm? Dovranno incriminare la femminista per transfobia e per misoginia (sissignore: se le trans sono “vere donne”, discriminarle dovrebbe ricadere nel reato di misoginia, questo negli Stati Uniti è già convinzione diffusa) oppure dovranno incriminare chi la attacca in nome del principio che le trans devono poter occupare le quote rosa? La posizione di costoro può infatti essere interpretata come una forma di discriminazione di genere e un atto di misoginia nei confronti delle donne a cui le trans soffiano il posto.

In attesa che i nostri geniali deputati di Pd, Leu e M5s ci illuminino sulla questione, noi li consiglieremmo modestamente di lasciar perdere. State gettando olio sul fuoco, quando bisognerebbe gettare acqua.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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