Ma quale biotestamento. «L’unica legge che conta è quella della relazione»

Intervista a Gian Battista Guizzetti, responsabile del Don Orione di Bergamo. Le Dat, il caso Fabiani e la quotidianità di 24 “stati vegetativi” che «non sono pezzi di legno, ma uomini»

«Lavoro qui da 21 anni, da quando è stato aperto il reparto nel 1996, e nessuno, madri, padri, figli, mariti, mogli, nonni o amici, mi ha mai, dicasi mai, chiesto di sospendere cure, alimentazione, idratazione o di mettere in pratica procedure eutanasiche». Gian Battista Guizzetti è il responsabile del nucleo specializzato al Don Orione di Bergamo, dove con la sua équipe si prende cura giorno e notte di 24 cosiddetti “stati vegetativi”: «Non sopporto questa definizione, non si tratta di carote o tronchi di legno, ma di uomini e donne che non hanno perso la propria dignità ontologica di essere umano per diventare una specie di vegetale. Sono persone che hanno subito una grave lesione del cervello, di natura traumatica, emorragica o anossica (significa che il sangue non è arrivato al cervello perché c’è stato un arresto cardiaco per un numero di minuti tali da causare gravi sofferenze della corteccia cerebrale, ndr). Non sono in coma, possono aprire e chiudere gli occhi, deglutire, dormire, svegliarsi, sbadigliare, urlare, ma secondo la definizione in voga di stato vegetativo questo stato di veglia non sarebbe accompagnato da un contenuto di coscienza. Non è sempre vero, tutte queste persone hanno, chi più, chi meno, una capacità di relazionarsi con ambiente. Soprattutto non sono stati di vita terminali, bensì condizioni di vita misteriose e che possono evolvere e sorprendere qualunque diagnosi».

CURA E ASSISTENZA. Al centro Don Orione ogni santa mattina gli operatori bussano alle porte dei loro ospiti, li salutano, li alzano dal letto, li lavano, vestono, li mobilizzano mettendoli in carrozzina, accarezzandoli, spiegando loro ogni cosa che stano facendo. Li curano, prevenendo complicanze legate alla patologia neurologica o all’immobilità, come i decubiti («in oltre vent’anni qui non ci sono mai state lesioni di questo tipo»), le retrazioni muscolo-tendinee, le infezioni bronco-polmonari. «Si chiama relazione di cura e assistenza, e vi sfido a chiamarlo accanimento terapeutico come si iniziò a proclamare ai tempi di Eluana». Schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare, così Piergiorgio Welby definì le persone come quelle curate da Guizzetti, «e in base a quali standard?”, chiede il medico. “Qui si porta e condivide la fatica di ogni pezzetto integro di esistenza. Qui due persone hanno recuperato la parola contro ogni diagnosi, qui la coscienza non è tutto o niente, è ogni attimo di presenza. Soprattutto, qui la persona non è definita da una funzione o in base a campioni riferiti alla vita prima dell’evento traumatico. Terra di confine, la chiamano: qui la legge che conta è quella della relazione, con il medico, i propri cari. E proprio qui, dove la relazione è vita, è vitale, vogliono proclamare il regno dell’assolutismo individualista, dell’autodeterminazione dell’io. Sono cose da pazzi, pazzi che non sono entrati qui dentro».

BIOTESTAMENTO. Guizzetti è il medico più sentito dai giornali quando si verificano, seppur rari, casi di risveglio dallo stato vegetativo. Il suo libro, Terry Schiavo e l’umano nascosto (ed. Sef) è pieno di risposte al mistero della condizione in cui versano persone all’apparenza estranee al mondo dei sani – “testimonial” involontari della necessità delle Dat –, scaturite dall’esperienza, da una non comune capacità di giudizio e soprattutto dall’affetto. Quello che salva la vita dalla sua ineliminabile fragilità e la accompagna a compimento, invece di sbarazzarsene senza pietà, decretando la morte per fame e per sete a colpi di leggi e sentenze dei giudici. Per questo, quando ha visto passare alla Camera il ddl biotestamento (in queste ore in discussione al Senato), Guizzetti ha provato «una grande rabbia. Se le Dat diventeranno vincolanti, una decisione in relazione a un evento che non si sa se, come, quando avverrà, diventerà l’ultima parola per il medico o il paziente. Ma, l’evento – è evidente a chiunque faccia il mio lavoro – ribalta completamente decisioni e convinzioni». È il caso di Sylvie Menard, l’oncologa allieva di Umberto Veronesi, per anni favorevole all’eutanasia e al testamento biologico che dopo aver scoperto di avere un tumore ha cambiato radicalmente le sue posizioni. «Quanto alla pratica barbara della sospensione dell’alimentazione e idratazione ci vuole una bella faccia tosta a non chiamare questo “accanimento”. Posto che la sospensione è già considerata legittima in fase terminale di una malattia, nel caso di persone gravemente disabili come quelle del don Orione, che hanno una aspettativa di vita di 10, 15, 20 anni, questa si chiama condanna a morte. E da quando avere a disposizione un medico che ti ammazza è diventato un diritto o un’opportunità per un malato?».

DJ FABO E ABBANDONO. Secondo i pm che ne hanno chiesto l’archiviazione, un atto antigiuridico come l’aiuto al suicidio praticato da Marco Cappato nei confronti di Fabiano Antoniani diventa giuridico se realizzato al fine di sancire un diritto: quello alla dignità umana del dj che se avesse sospeso le cure per morire “sarebbe stato costretto a una lenta e non quantificabile agonia”. Chi invoca in questi giorni la morte dignitosa sembra usare come arma la paura che l’uomo ha del dolore e della malattia, mettendo a tacere ogni obiezione, dividendo il dibattito in modo ottusamente manicheo: «Guardi che qui l’unica paura delle persone, e lo dico da medico che prima di occuparsi del Don Orione ha fatto per anni il medico di famiglia, è quella dell’abbandono terapeutico, di essere lasciate sole. Nella mia carriera ho incontrato persone che non erano disposte a farsi operare o seguire determinate terapie, ma nessuno ha mai voluto interrompere la relazione di cura proprio per paura di restare soli col proprio dolore. Umano e reale: su questo le dico che il dolore è oggi controllabile nella quasi totalità dei casi, esiste solo una piccolissima percentuale di pazienti per cui in fase di fine vita si deve ricorrere alla sedazione profonda».

NON C’È ANESTETICO ALLA VITA. Esistono, spiega il medico, le cure palliative, centinaia di farmaci, dagli antidolorifici semplici ai cannabinoidi, assolutamente efficaci, «chi cavalca la paura collettiva di “atroci sofferenze” non è mai entrato in un hospice, o c’è entrato e mente sapendo di mentire». Guizzetti usa la medicina del dolore costantemente, «Veronesi sosteneva che gli stati vegetativi, a causa delle gravi lesioni alla corteccia cerebrale, non potessero sentire dolore. Non è così, qui si patisce come i “sani” la colica renale, il dolore articolare. Si soffre e si supera, non c’è anestetico alla vita. Ma non chiamatela agonia. Le parole hanno un peso: inoculare una sostanza che causa la morte o sospendere ciò che ti tiene in vita invece come lo chiamiamo?».

«DITEGLI CHE SONO FELICE». Nel 2011 al Don Orione, proprio mentre era in corso alla Camera il dibattito sul testamento biologico, Lucia, uno “stato vegetativo irreversibile”, rompeva il silenzio di anni con un messaggio per il marito: «Ditegli che sono felice». È accaduto come evento non previsto dopo una iniezione nella colonna vertebrale di un farmaco utilizzato per combattere la spasticità. Poi Lucia ha imparato a comunicare e a giocare con un computer. E come lei Domenico e Mauro che tramite sensori posizionati sulla teca cranica riescono a eseguire ordini semplici su comando o a muovere una racchetta da ping pong sullo schermo del computer.

GESTI TERAPEUTICI. Chi parla di dolce morte per le persone in stato vegetativo probabilmente non le ha mai viste, non ha mai visto la relazione che ancora si può costruire con loro, non ha mai visto come sia possibile prendersene cura per garantire loro il miglior confort possibile. «La nostra è la storia di una presa in carico molto semplice, a basso contenuto tecnologico, ma ad elevato impegno umano ed assistenziale, che sa di non poter guarire – non siamo degli ingenui -, ma che sa prendersi cura sempre, senza mai cadere nell’accanimento o nell’abbandono diagnostico o terapeutico. Una cura che cerca di costruire una relazione – è sempre possibile una relazione -, di dare risposta alle loro concrete quotidiane esigenze fisiche, che sono le nostre stesse quotidiane e concrete esigenze fisiche, di trattare le patologie intercorrenti, di prevenire le complicanze legate all’immobilità, di dare sollievo al dolore quando presente. Sono gesti semplici lavare, vestire, posizionare su una carrozzina, alimentare, ma che, se fatti nel contesto di forte relazionalità, possono favorire, anche dopo tanto tempo, il riacquisto di una capacità di interazione con le persone e con l’ambiente. Gesti di cura che possono diventare terapeutici».

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