Libia, caccia spietata ai “gheddafiani”: torture e abusi nelle prigioni

Un rapporto dell'Onu denuncia la presenza di oltre 7 mila persone nelle carceri libiche senza processo: torture e abusi, anche su donne e bambini. L'accusa di essere un "gheddafiano" viene usata per eliminare i clan nemici e si verifica una vera caccia all'uomo

Mentre il premier Abdurrahim El Keib e 18 membri del suo nuovo governo hanno giurato ieri fedeltà alla Libia con una mano appoggiata sul Corano, davanti al presidente del Consiglio nazionale di transizione Mustafa Abdel Jalil, e mentre Giorgio Napolitano, insieme a politici di mezzo mondo, ha salu

Mentre il premier Abdurrahim El Keib e 18 membri del suo nuovo governo hanno giurato ieri fedeltà alla Libia con una mano appoggiata sul Corano, davanti al presidente del Consiglio nazionale di transizione Mustafa Abdel Jalil, e mentre Giorgio Napolitano, insieme a politici di mezzo mondo, ha salutato «con soddisfazione la notizia della formazione di un governo transitorio in Libia, nel pieno rispetto del calendario previsto con l’obiettivo di aprire il paese ad un futuro prospero e democratico», le nuvole continuano ad addensarsi sul paese, dopo l’uccisione del Colonnello Muammar Gheddafi.

Cinque ministri berberi si sono rifiutati di giurare lamentando ingiustizie nei confronti del proprio gruppo etnico, al quale sarebbero stati affidati troppo pochi ministeri. A preoccupare di più, però, non sono i dissidi politici interni ma un rapporto che l’Onu presenterà lunedì al Consiglio di sicurezza, dove si prova che ci sono 7 mila prigionieri nelle carceri gestite dai ribelli libici, senza essere stati giudicati da nessuna corte, visto che il sistema giudiziario non è ancora stato ripristinato. Nelle celle ci sarebbero “anche donne e bambini” e alcuni detenuti vengono “torturati”. L’Onu, che con la risoluzione 1973 ha dato il via all’intervento della Nato in Libia con lo scopo di “proteggere i civili”, ora invita il Cnt a “fare di più per mettere sotto controllo le milizie armate, regolarizzare la detenzione, e impedire gli abusi“.

Il testo documenta una serie di violenze, torture “degne” del vecchio regime. L’accusa con cui le persone finiscono in prigione è semplice: essere un “gheddafiano“. La caccia a queste persone è spietata e senza quartiere: a Sirte, città natale di Gheddafi, la gente vive nel terrore, dice ancora il rapporto. Viene citato anche il caso degli abitanti di Tawergha accusati di sostenere Gheddafi durante l’assedio di Misurata: prelevati dalle loro case, alcuni sarebbero stati torturati o giustiziati in cella per mano di miliziani spesso accecati dalla vendetta, avendo avuto parenti uccisi sul campo o in prigione. Il rapporto spiega anche che l’accusa di essere un “gheddafiano” viene fatta in modo indiscriminato per eliminare membri di città e clan nemici. Il «futuro prospero e democratico» invocato dal capo di Stato italiano è ancora lontano.

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