«Una legge sul suicidio assistito non è necessaria né utile»

Anche se potrebbe arrivare presto anche in Italia, «una legislazione che concede una via di fuga alla disperazione, invece che offrire un luogo in cui lasciare spazio alla speranza, non è la soluzione». L'illusione dei "paletti", le cure palliative e le «armi della carità». Parla Bordin (Medicina e Persona)

In una lettera aperta al direttore del Riformista, testata che ha ospitato le recenti dichiarazioni sul fine vita di Monsignor Vincenzo Paglia (poi da lui stesso precisate), il presidente dell’associazione Medicina e Persona Giorgio Bordin ha raccolto alcune riflessioni sul tema del suicidio medicalmente assistito che muovono dal desiderio di dialogare con chiunque abbia a cuore la “comune e vulnerabile umanità” e anche di essere portavoce di chi vive l’impegno umano e professionale di prendersi cura dei malati alla luce di uno sguardo integrale sulla persona, rispetto a cui la fine della vita non può essere avulsa dal Fine della vita. Abbiamo chiesto al presidente Bordin un ulteriore affondo su alcuni dei punti scottanti che emergono dalle sue parole.

Nella sua lettera aperta come presidente dell’Associazione Medicina e Persona ipotizza che una legge sul suicidio medicalmente assistito «si realizzerà per certo e rapidamente anche nel nostro paese». Ne è convinto?

A mio parere una legge non è necessaria e neppure utile. La frase non è evidentemente espressione di un mio desiderio, è una previsione basata su alcuni dati di fatto. Quando uscì la sentenza 242/2019, la Corte Costituzionale segnalò la necessità di colmare il vuoto legislativo e di colmarlo rapidamente. E sono trascorsi tre anni. Penso che andremo in questa direzione perché esiste già una serie di proposte depositate alla Camera e la maggior parte degli stati europei ed extraeuropei ha leggi di questo tipo. Siamo in una società post cristiana e non cristiana, oltremodo fluida, e alcuni valori etici sono condivisi da una minoranza, per cui ogni battaglia è impari. Anche per questo molte realtà cattoliche preferiscono una legge che abbia ragionevoli tutele di garanzia, secondo il criterio del “minor male”, piuttosto che una battaglia in cui il perdere possa avere una legge peggiore.
La Corte Costituzionale ha già dichiarato l’illegittimità dell’articolo 580 del codice penale, immagino si arriverà anche a scalfire l’articolo 579 sull’omicidio del consenziente, quindi siamo di fronte a qualcosa di irreversibile. È un affondo che comporta delle conseguenze.

La narrazione mediatica sul suicidio assistito cavalca sempre l’onda della libertà personale, dell’autodeterminazione del singolo. Lei ha ribadito che dietro questo disegno ci sono interessi economici «che ben poco hanno a vedere con il bene dell’uomo». Di cosa si tratta?

I malati cronici costano tantissimo, i malati sostenuti da trattamenti vitali hanno un costo esorbitante. Restano in vita per anni e non sono i malati critici di certi ambiti di rianimazione che hanno un costo altissimo, ma il cui decorso arriva a un bivio per cui o si migliora o si muore. Il problema dei costi dei malati cronici è all’interno del più grande problema dei costi della sanità. Sono costi che superano sempre la possibilità di finanziamento, o che richiedono possibilità di finanziamento sempre maggiori. Le risorse sono limitate. La riforma sanitaria 833/1978 che istituì le USL ci ha fatto vedere cosa succede quando si dà tutto a tutti e ce lo ha mostrato in un tempo storico in cui i costi della sanità erano irrisori, se comparati a quelli odierni. Dunque c’è un problema di tenuta del sistema sanitario ma anche di ripartizione del finanziamento. L’istituzione dei LEA, i livelli essenziali di assistenza, ha voluto identificare in Italia ciò che è irrinunciabile per curare e pertanto deve essere garantito dal servizio sanitario nazionale. In cosa investiamo questi soldi? Possiamo investirli sulla gratuità della pillola anticoncezionale o su altro. Si apre il discorso delle priorità, che sono dettate da quale idea dell’uomo e immagine di società si ha. Cosa si toglie? Cosa si privilegia? La risposta a queste domande svela qual è l’idea di società civile, di cosa è bene per l’uomo.
Il discorso è ancora più ampio che per il solo fine vita. Il costo incomprimible della cronicità da un lato ma anche della disabilità muove i portatori di interessi economici a spingere verso queste direzioni. Nutrizione e idratazione sono state considerate terapie, e pertanto sono passibili di interruzione se considerate futili, inappropriate. Nell’articolo “On feeding the dying” Callahan esprime la preoccupazione che «il rifiuto della nutrizione può diventare, nel lungo termine, il solo modo efficace per assicurarsi che un largo numero di pazienti biologicamente resistenti venga effettivamente a morte (…) la disidratazione potrebbe diventare a ragione il non trattamento di elezione». E questo è un argomento di cui non si parla, come se tutto avvenisse nel vuoto pneumatico di una discussione ideale.

Gli argini legali che si costruiscono attorno al tema del suicidio assistito sono deboli e l’esperienza di altri stati l’ha già dimostrato. Può darci una visione più chiara di questo aspetto cruciale?

La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale considera illegittimo punire chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili. È notizia del 2021 che, in riferimento al cosiddetto “caso Mario”, cioè la richiesta di accesso al suicidio assistito di un tetraplegico, il Comitato Etico della Regione Marche ha assimilato ai trattamenti di sostegno vitale anche il pacemaker e il catetere vescicale, oltre alla necessità di essere sottoposto ad evacuazioni manuali. Cambiando contesto, Theo Boer, olandese, direttore di un programma sorveglianza degli effetti dell’istituzione della eutanasia nel suo paese, di cui era convinto sostenitore, ha pubblicato i dati di alcuni anni di introduzione del suicidio assistito in Olanda, affermando (parole scritte che traduco) che “è mia opinione che il fatto che il suicidio mediamente assistito sia stato reso legale ha contribuito ad uno spostamento di paradigma dal suicidio come ultima possibilità al suicidio come modalità default di morire”. Sempre in Olanda, nel dicembre 2016 è stata avanzata una proposta di legge per l’autorizzazione al suicidio assistito per “vita completata”. Due soli requisiti: 75 anni, quindi una vita “già completata”, e la volontà di morire. A seguire la “pratica” non c’è il rapporto con un medico, ma con un professionista dedicato fornito come servizio dalla amministrazione statale, con sportello apposito.
Sono alcuni tra i molti esempi possibili per evidenziare che, essendo questi argini o paletti di tipo qualitativo e risiedendo sulla percezione che una persona ha della propria vita, sono molto mobili. C’è chi si sente rassicurato auspicando una legge che abbia delle condizioni di garanzia; in questo caso vedo la garanzia debolissima. L’orizzonte è quello di un piano inclinato, si inizia concedendo una cosa e da quel punto in poi è discesa. Più o meno ripida, ma è discesa. Si introduce una percezione di insignificanza, di inutilità della vita, di tanatofilia che diventa dilagante. La natura umana ci fa aggrappare alla vita, per istinto, ma la cultura può modificare questa percezione che dentro la sofferenza è difficile mantenere. Per questo è altrettanto importante capire oggi il compito di chi cura, che non è quello di sbandierare argomenti dialettici teorici che di fronte all’angoscia del dolore e della solitudine sono percepiti astratti, e forse lo sono davvero. Occorre mettere in atto esperienze di cura che possano essere giudicate, da chi ne beneficia, come più adeguate e più affascinanti per il proprio bene. Il rapporto di cura non è una tecnica, è un cammino, un percorso in cui la relazione si dipana per strade di cui non ci sono mappe disegnate. Si scopre strada facendo. Ogni meccanicismo ne vanifica l’essenza. Bruciare le tappe con una legislazione che concede frettolosamente una via di fuga alla disperazione, invece che offrire un luogo in cui lasciare spazio alla speranza, non mi sembra la soluzione. Abbiamo una legge, cioè la legge 38/2010, ancora in grande parte inapplicata, persino poco conosciuta, oserei dire. Lavoriamo perché le cure palliative siano davvero ciò che devono essere: il loro potenziale non è minimamente sfruttato.

Da medico come abita questa scena dai contorni scuri e che forse diventeranno ancora più cupi? «La scienza ha armato la carità di efficacia» ha scritto. Che armi ha una vera carità?

Oggi di armi ne abbiamo tante. E però c’è una contraddizione eclatante per cui la scienza non è mai stata così potente, e la gente non si è mai sentita così poco curata. È apparentemente strano: si superano eventi potenzialmente mortali, (che non vuol dire guarire perché può rimanere la malattia che li ha provocati e indurre la cronicità, altro tema enorme della medicina moderna), e in molti casi si guarisce anche da molte malattie ritenute mortali, senza scampo fino a pochi anni fa. Eppure questo non è sufficiente all’uomo, lo registrano le richieste di accesso all’eutanasia o al suicidio assistito, che è il tema di cui stiamo parlando, ma anche il contenzioso in sanità. C’è anche un termine tecnico che identifica una forma di patologia pressoché sconosciuta in passato: quello dei “survivors”, i sopravvissuti. Sono persone biologicamente guarite da eventi gravi, principalmente traumatici o oncologici, che per la biologia sono sani, ma nei quali la malattia è ancora presente come dimensione personale: neppure la guarigione biologica basta all’uomo. E infatti il suicidio è tentativo sempre più diffuso anche di chi è in salute nel fisico. C’è dunque un’insoddisfazione per ciò che la medicina sta facendo per l’uomo e dobbiamo chiederci il perché.
Una carità che si fa prossimità, ma senza cercare di incarnarsi davvero, attrezzandosi per fornire un aiuto che diventi efficace, tiene fino a un certo punto. La carità che dà solo una pacca sulla spalla non basta e non è neppure carità. Le armi per corroborare una vera carità ci sono e vengono da lontano. Occorre andare all’origine di questa storia per essere originali.
Uomini e donne hanno iniziato a curare le persone malate di malattie per lo più infettive – le devastanti epidemie dei primi secoli del cristianesimo, che hanno contribuito alla dissoluzione dell’Impero Romano – realizzando una novità assoluta di cui si stupirono i cronisti laici come Cipriano di Cartagine, Dionigi Alessandrino ed Eusebio di Cesarea, che la attestavano. Cosa stupiva questi osservatori? Fu introdotto qualcosa che non c’era, una positività nuova nello scenario del mondo, che non si era mai vista prima. La medicina c’era ma, ad esempio, Galeno raccomandava ai medici di tenersi ben lontani dalla peste perché si moriva. Non aveva incidenza civile. Le realtà ospedaliere sono nate e si sono diffuse a partire dall’impronta prettamente cristiana del prendersi cura del malato. Tuttavia per molto tempo l’arte medica ha avuto supporti scientifici modesti.
È stato solo con lo sviluppo della scienza moderna che abbiamo attrezzato di efficacia l’impeto di quella carità. E abbiamo innescato un circuito virtuoso al punto che quello che facciamo nel 2023 è imparagonabile anche a quello che facevamo nel 2010, non nel 1800. Di fronte a noi c’è però il grande iato che si apre di fronte all’ipotesi che questa scienza sia un’arma in mano a chi si prende cura dell’altro dentro quello che Cicely Saunders, fondatrice delle cura palliative, identificava come l’amore alla “nostra umana vulnerabilità”, o la si usi per sostituire il gesto del prendersi cura. Le implicazioni sono davanti agli occhi di tutti.

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