«Lavoro 10 mesi l’anno per pagare le tasse e lo Stato che fa? Mi bastona per una svista del commercialista. Basta, vendo l’azienda»

Su Repubblica due pagine di numeri devastanti sulla guerra in atto tra il fisco italiano e le imprese. E il caso emblematico della padovana Orion Group

Repubblica propone oggi due paginoni molto istruttivi con numeri e aneddoti di quella che ormai viene esplicitamente definita «guerra» tra il fisco e i contribuenti, in particolare le imprese. Ne viene fuori una fotografia davvero devastante, con dettagli che «rischiano di accomunare una democrazia del gruppo dei Paesi industrializzati ad uno Stato autoritario in via di sviluppo».

UN EURO SU DUE. Comincia Federico Fubini snocciolando le cifre relative ai contenziosi tra Stato e aziende, pubblicate alla fine di giugno dal ministero dell’Economia. Nel 2013, scrive Fubini, «più di un euro su due, in caso di contenzioso legale, risulta reclamato dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza al contribuente in modo illegittimo». Quanto al 2014, solo tra gennaio e marzo «si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi», mentre nello stesso periodo lo Stato si è vista riconosciuta dai tribunali una somma totale di 3,5 miliardi. Anche il numero dei ricorsi fiscali fa impressione: l’anno scorso le imprese, «accusate di evadere qualcosa come 35 miliardi di tasse», scrive Fubini, hanno avviato 250 mila cause nei confronti del fisco e il totale dei processi tributari ancora aperti supera le 650 mila unità.

MEGLIO CHIUDERE. Nel 2013, prosegue il giornalista, «il 45 per cento dei ricorsi con esito di merito si è concluso a favore del contribuente, contro il 41 per cento a favore degli uffici pubblici. Soprattutto nelle cause fiscali fino a 20 mila euro, quelle che riguardano piccole o minuscole aziende familiari in lotta per sopravvivere, quasi una volta su due lo Stato alla fine risulta aver torto». Se dunque è vero forse che «fare la guerra al fisco paga», come nota Repubblica titolando il servizio, tuttavia non sempre aziende e professionisti hanno forza, risorse, tempo e voglia di imbarcarsi in un’avventura giudiziaria che durerà mediamente – sempre secondo i calcoli del ministero dell’Economia – ben 865 giorni. Non a caso, ricorda Fubini, spesso «le imprese colpite dagli accertamenti chiudono, anziché far emergere gli abusi».

METODI SUDAMERICANI. Preferiscono arrendersi, le aziende “attenzionate” dal fisco. Anche perché, spiega Repubblica, sono costrette a subire «metodi che spesso rischiano di accomunare una democrazia del gruppo dei Paesi industrializzati ad uno Stato autoritario in via di sviluppo». Qualche esempio? «La Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale». E anche qualora l’imprenditore sia in regola, potrebbe vedere riconosciute le proprie ragioni solo «all’ultimo grado di giudizio», ma intanto, oltre a sobbarcarsi le parcelle degli avvocati, avrà già pagato una bella fetta della somma reclamata (magari ingiustamente) dallo Stato, poiché l’ufficio pubblico «ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello». Soldi che invece l’accusato in caso di vittoria si vedrà rimborsare solo dieci anni più tardi «dopo aver vinto in Cassazione».
Senza contare che «lo Stato può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate e una Procura». In questo caso – conclude mestamente Fubini – «l’imprenditore è già un presunto colpevole» e quindi «scattano i sigilli sull’azienda», dopo di che «le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti».

«SONO ESASPERATA». Emblematico il caso di Livia De Poli, (ex) titolare della Orion Group di San Martino di Lupari (Padova), intervistata sempre da Repubblica. «Pago in tasse il 78 per cento degli utili», racconta De Poli. La Orion Group «va bene» e non ha problemi con le banche, «ma quando mi è arrivato l’accertamento induttivo con la multa di 100 mila euro dell’Agenzia delle entrate – confessa l’imprenditrice – non ho avuto dubbi. Tanto hanno sempre ragione loro. Ho pagato un avvocato per il penale, dove ho vinto, mi sono rassegnata e ho iniziato a pagare le rate». L’errore che ha aperto alla De Poli le porte dell’inferno era «veniale», spiega lei: «Il mio commercialista aveva spedito la dichiarazione Iva in bianco», ma «bastava un po’ di buon senso per capire» che era solo un svista, anche perché «in quel caso non avrei dovuto nemmeno fare la dichiarazione dei redditi». Invece non c’è stato nulla da fare, e così De Poli ha «pensato solo ad affrontare la parte penale del procedimento. Andare per il civile mi avrebbe fatto perdere tempo e spendere più soldi di legali che di sanzione». Di qui l’assurdo: l’imprenditrice è stata riconosciuta non colpevole sul piano penale ma paga ugualmente la sanzione: «Finora ho già rimborsato 32 mila euro. Ma sono esasperata. Io e i miei figli lavoriamo per 10 mesi per un socio occulto, lo Stato, che si mangia i soldi che guadagniamo. E poi ci bastona per un errore veniale! Da allora ho girato l’azienda ai figli. Ma anche loro non ce la fanno più. E stiamo trattando per venderla».

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