La scuola non si fonda sullo Stato, ma sulla libertà

«Lo Stato è inadempiente e la legge manchevole». Considerazioni in margine alla Legge 62/2000 nel XX° anniversario

Caro direttore, a vent’anni dalla approvazione del Parlamento italiano della legge 62/2000, concernente “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione(Legge pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n° 67 del 21 marzo 2000), doveroso sembra procedere ad una analisi riflessiva.

Con questa legge si era inteso concretizzare ciò che la Costituzione italiana, alcune norme della Corte Costituzionale, la stessa legge sull’autonomia e l’ordinamento giuridico internazionale ebbero più volte a sollecitare. Con la legge veniva affermato che «il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali. La Repubblica individua come obiettivo prioritario l’espansione dell’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita» (art. 1). Nelle successive articolazioni, venivano elencate le condizioni per addivenire al riconoscimento della funzione pubblica, con conseguente inserimento delle scuole richiedenti la parità nel sistema nazionale.

Il riconoscimento legislativo della funzione pubblica delle scuole non statali – tra l’altro già precedentemente considerate aventi funzioni pubbliche tramite la parificazione e il riconoscimento legale delle scuole – ha certamente avuto un impatto fiducioso: sembrava a portata di mano il superamento culturale, economico ed operativo di unilaterali discriminazioni. Si disse: è stato fatto un passo avanti! Ma non è stato e non è così! La situazione attuale conferma che «non è lo Stato che rende vitali i suoi organi; è l’uomo che li vivifica, l’uomo che li mortifica, l’uomo singolo e organizzato, la persona reale effettiva, non l’ente astratto che si usa chiamare Stato» (Luigi Sturzo).

Viene affermato che “la scuola o è pubblica, o non è scuola”: tale affermazione non è condivisibile. Ciascuna scuola è “pubblica” – statale o non statale che sia – e ciò non tanto per riconoscimento statuale, bensì perché ambito a cui si riferiscono e appartengono i diritti e gli interessi di una “comunità educante” tesa al conseguimento del “bene comune educazione e istruzione”: «Quel bene comune, che non è riducibile alla dimensione statuale e a quella politico-partitica» (Maria Grazia Colombo, vice presidente Forum Associazioni Familiari). Da qui l’incongruenza di uno Stato inadempiente e di una legge manchevole.

Resta indispensabile, nell’attuale contesto di crisi valoriale e di identità della società civile, progredire sempre più lungo il percorso innovativo, che riconosce alla famiglia, e con essa alla scuola, la possibilità di risposta alla crisi educativa, a questa emergenza educativa che attanaglia la nostra comunità.

Quindi va riconosciuto compiutamente un sistema che sia concretamente al servizio del diritto della persona all’istruzione e alla formazione, e a sostegno della famiglia nel conseguimento del compito educativo suo proprio. Questo il criterio di base col quale valutare e sostenere la scuola tutta, coordinandola e sostenendola nel rispetto del pluralismo scolastico istituzionale.

Avrebbe dovuto essere promosso un diverso criterio a livello governativo e parlamentare, e un percorso teso ad attivare alcuni principi costituzionali:

* la parità tra cittadini, indipendentemente dal tipo di scuola prescelta per i figli;

* la libertà di educazione come diritto e dovere inalienabili della famiglia;

* l’effettivo e generalizzato sostegno economico alle funzioni educative della famiglia, in condizioni di tendenziale equipollenza, quali che siano le legittime scelte educative;

* la reale libertà di insegnamento, che implica la libertà della scelta del tipo di scuola in cui insegnare e soprattutto in cui imparare, senza che la scelta di un tipo o di un altro tipo di scuola abbia effetti penalizzanti;

* la concreta valorizzazione e attuazione sia del principio di sussidiarietà, tanto verticale che orizzontale, sia dell’autonomia sostanziale e funzionale delle istituzioni scolastiche tutte.

Non ci sembra che, nel nostro sistema nazionale di istruzione, questi principi costituzionali siano stati rispettati. Si è fatta una “presunta” legge sulla parità, ma questa legge è stata, e tuttora resta orientata esclusivamente a dettare le norme giuridiche condizionanti l’operato delle scuole paritarie, forzandone indebitamente l’assimilazione al modello culturale e organizzativo definito per la scuola statale. Tale sfondo giuridico nei fatti ha svolto, e svolge, una pesante azione di riplasmazione della lettura – anche intraecclesiale –  della natura e del ruolo della scuola non statale cosiddetta paritaria, cattolica e laica. 

Ci si è totalmente astenuti dall’articolare norme che consentissero un corretto esercizio della pari dignità. Quella parità che riguarda la concreta possibilità di esercitare il diritto di scelta della scuola; il diritto di scelta dei fini, dei tempi e dei mezzi cui orientare la propria formazione ed il proprio apprendimento; il diritto di insegnare negli ambiti ritenuti più gratificanti nei riguardi del proprio impegno professionale.

Questa situazione in campo educativo e formativo risulta rovinosa:

       a) per il pluralismo culturale: si persegue nell’affermare una “cultura di Stato” che, sotto il pretesto della “laicità”, emargina tutti i valori forti, sostituendoli con una genericità ispirata di volta in volta ai più vacui luoghi comuni della cultura dominante, assecondando anche l’affermarsi di quel relativismo teso ad annullare l’identità e la storia stessa che hanno caratterizzato e caratterizzano la convivenza nel nostro paese;

       b) per il pluralismo delle istituzioni: le istituzioni non statali paritarie vengono progressivamente disincentivate e soffocate; da un lato, infatti, la pressione fiscale crescente, usata irrazionalmente non per sostenere i servizi indispensabili ma per accontentare clientele e conservare sprechi, lascia sempre meno risorse a disposizione delle famiglie, e dall’altro, non si interviene al doveroso sostegno delle strutture educative paritarie;

        c) per la libertà di insegnamento: il soffocamento delle istituzioni non statali paritarie obbliga di fatto gli insegnanti all’impiego nella scuola “pubblica statale”, con ciò negando alla radice il conclamato “servizio pubblico” delle scuole paritarie; non solo, ma i docenti di scuola non statale paritaria sono continuamente discriminati rispetto ai loro colleghi della scuola di Stato, sia per quanto riguarda l’accesso a corsi di aggiornamento professionale, sia per quanto concerne i concorsi per gli insegnanti precari, sia ancora per quando concerne le opportunità di ordine strumentale;

      d)  per la qualità dell’insegnamento: nessun monopolio – quel monopolio che persiste e che trova resistenze nel tentativo di modificarne la struttura – si preoccupa della qualità del prodotto che fornisce; non va dimenticato che i monopoli pubblici – come e peggio di quelli privati – cessano rapidamente di essere al servizio dei cittadini, per passare al servizio di se stessi;

        e) per i costi e l’efficienza dell’insegnamento: mancando la concorrenza tra istituzioni scolastiche, non solo peggiora la qualità del servizio – riconosciuta dall’Ocse di livello molto basso – ma viene meno ogni termine di paragone circa l’economicità e l’efficienza del servizio stesso.

A distanza di vent’anni, siamo ancora qui a discutere su quella libertà di istruzione e di educazione che è fattore prioritario nella costruzione di una società democratica e più giusta. Ci si domanda come abbiano potuto e ancor oggi possano i governi e i parlamentari che si sono succeduti in questi vent’anni non capire queste gravi anomalie del sistema, e come restino oscurati da una miopia e da una indifferenza culturale ed operativa incapace di affrontare il problema e superare ignobili steccati che relegano la scuola ad espressione governativa, insensibili all’emergere nella società di fatti nuovi in grado di sconfiggere l’ideologia burocratica e statalista dominante e quindi in grado di essere risposta vera ai bisogni emergenti nella società.

Non va dimenticato che c’è nella considerazione politica una concezione ottusamente miope, e cioè che alla persona e al nucleo familiare non spetti alcuna decisione in ordine alla scuola: vige la presuntuosa concezione secondo cui non sono le famiglie a dover scegliere la scuola a cui iscrivere i propri figli, ma è lo Stato che offre per tutti un servizio scolastico direttamente gestito in forma monopolistica.

Urge guardare il problema della libertà di educazione, di apprendimento e di insegnamento, senza fermarsi alla dialettica verbale, ma, insieme tutti, concretizzare un’azione comune negli ambiti che possono – se non ancora oscurati da un laicismo stantio e superato dai tempi – indirizzare a riconoscere che “la scuola non si fonda sullo Stato, ma sulla libertà”. Quella piena libertà che sola è in grado di rivalutare la funzione della scuola, di rimotivare l’impegno degli alunni, di stimolare la preparazione dei docenti e di attivare la responsabilità educativa dei genitori e delle famiglie.

Mortificare la libertà di scelta e di proposta educativa significa tradire il dovere di valorizzare tutte le espressioni della società civile nell’ambito di una democrazia sostanziale e solidale, e significa tradire la vera funzione dello Stato che non è quella di gestire, bensì di rispettare, coordinare, valutare e sostenere, con vero spirito sussidiario, le iniziative e le scelte reali dei detentori del diritto.                                                                

Giancarlo Tettamanti

Giornalista pubblicista, Socio Fondatore Associazione Genitori Scuole Cattoliche

Foto Ansa

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