La bambina che odiava il cielo (fino all’irrompere del miracolo). Uzbekistan, storia della piccola Zebò

L’orfanotrofio, le case di rametti, i frutti degli alberi. Poi l’internamento in un istituto per disabili, la temuta “Destinazione finale”. La fame, i soprusi, le compagne morte. E quella promessa a Dio: «Sarò tua nemica, farò tutto il male che posso»

Con questo articolo si conclude il viaggio di Tempi nelle periferie esistenziali. Le tappe precedenti: Rodolfo Casadei tra Camerun e Ciad nella regione dei tupurì africaniMonica Mondo in una borgata romana, Piero Gheddo nella missione di padre Belcredi in Amazzonia, Gian Micalessin a Shura Ashuk (Tripoli) con suor Emma Moja, Antonio Gurrado a Oxford, Angelica Calò Livné in Israele, nel kibbutz Sasa, Lorella Beretta nelle township del Sudafrica, Peppe Rinaldi tra le contadine di Eboli, Igor Turnaev nella steppa siberiana, Mattia Ferraresi nell’altra New York.

Forse non crederete a quanto sto per raccontarvi. Ma ogni parola che leggerete è vera. Non ricordo tutto della mia infanzia, e con questo non intendo dire che sia stata tutta terribile. Fino ai 6 anni ho vissuto in un orfanotrofio per bambini piccoli. Poi mi hanno trasferito a Fergan, una città dell’Uzbekistan orientale, in un altro istituto per bambini abbandonati e disabili. Qui sono stata molto bene; benché fossi ancora piccola, capivo tutto quello che mi succedeva intorno. Mi sembrava di essere già grande, adulta. Non mangiavamo dolci né avevamo i giocattoli come gli altri bambini, ma sapevo costruire le casette con i rametti e mangiavo i frutti che trovavo sugli alberi. Anche le pistole o le spade le facevo con i rami degli alberi.

Ma all’età di 9 anni una nube nera oscurò il mio cielo azzurro. Assistetti alla morte delle persone a me più vicine. Due bambine in particolare morirono in modo terribile: furono violentate e oltraggiate; i loro corpi furono ritrovati due settimane dopo sul tetto. Dopo questo fatto, tutto mi sembrò violento e crudele. Cominciai a vedere solo il male. E quando uno guarda solo il male, senza accorgersene diventa malvagio anche lui. Tutto quello che sognavo e desideravo, tutto fu oscurato da quella nube.

Benvenuta all’inferno
A 11 anni mi portarono in un internato per invalidi chiamato “Destinazione finale”, perché chi non aveva parenti era destinato a vivere lì fino alla fine dei propri giorni. Di solito le persone hanno paura della morte, ma gli abitanti di quell’istituto, donne, ragazze e bambine di ogni età, al contrario la desideravano. Mi portarono lì con l’inganno, dicendomi che andavamo al ristorante a festeggiare la mia vittoria (avevo ottenuto il primo premio in un concorso di pittura per alunni delle scuole elementari). Mi fecero una puntura di Aminazin2, un potente sedativo. Quando mi caricarono in macchina capii dove stavamo andando, perché fin da piccolissimi ci avevano minacciati e spaventati raccontando storie terribili su quel luogo. Sebbene fossi sedata, riconobbi il mio direttore e gridai: «Perché mi avete ingannato?». Lui mi guardò, ma non disse nulla. Poi salì in macchina e se ne andò.

Sul pulmino che ci trasportava eravamo in dieci. Ogni anno infatti trasferivano lì dieci bambini dell’orfanotrofio, fra quelli che raggiungevano la maggior età. Non so perché capitai in quel gruppo, forse semplicemente perché doveva essere raggiunto il numero di dieci stabilito dal regolamento, forse perché venivano scelti i più irrequieti. Fra queste dieci infatti io ero l’unica in grado di camminare, le altre erano invalide. Quando arrivammo, non riuscivo a reggermi in piedi e neanche a sedermi, a causa della puntura. Sapevo che esisteva “il Signore”, sapevo che Lui ci aveva creati. Ho quindi guardato fuori dalla finestra e ho giurato: «Io non so cosa significhi credere. Ma farò tutto quello che a Te non piace. Tu sarai per me un nemico».

Quando riaprii gli occhi, ero circondata da facce estranee, in un luogo completamente sconosciuto. Mi dissero che avevo dormito per cinque giorni. Poi riconobbi delle ragazze che erano state portate lì qualche anno prima di me, provenienti dal mio stesso orfanotrofio. Quando si avvicinarono per salutarmi mi parve che dicessero: «Benvenuta all’inferno».

Nell’istituto c’erano delle educatrici, che mi guardavano come se provassero pena per me. Appartenevo al quarto gruppo. I gruppi venivano formati più o meno secondo il tipo di malattia: i disabili, i tubercolotici, i malati mentali, quelli autosufficienti. In ogni gruppo di solito c’erano persone di età compresa fra i 18 e i 90 anni. Eravamo in settanta nel mio gruppo e io ero la più piccola. Non ci chiamavano “bambini”, bensì “malati” (in uzbeko “kashelar”).

Come una schiava
Le ragazze arrivate negli anni precedenti iniziarono ad aiutarmi. Ma io avevo paura a vivere lì: c’erano solo adulti, e tutti mi sembravano grandi e spaventosi. Il secondo giorno decisero di farmi uno scherzo, ma io presi molto male la cosa. C’era una stanza in cui tutti dovevano radunarsi dopo la sveglia. Mi ci portarono e chiusero a chiave la porta. Mi spaventai così tanto che cominciai a gridare, a piangere e dar calci alla porta perché mi aprissero. Mi sembra di aver perso mezza vita là dentro. Quando finalmente aprirono, fuggii, ma non sapevo dove andare; mi rifugiai nel cortile posteriore dell’internato e da lì vidi un’immensa prateria, con un solo albero. Corsi verso di esso, mi sedetti e cominciai a piangere. Dopo innumerevoli lacrime, all’improvviso smisi di piangere. Sembrava che Lui mi stesse dicendo: «Tu non puoi essere mia nemica». E io risposi: «Tu non sei nessuno per me! Io diventerò una persona che nessuno finora ha avuto il coraggio di essere».

Vivere là fu molto difficile. C’era una ragazzina che conoscevo fin dall’orfanotrofio, si chiamava Elena. La chiamavamo “la piccola Elena” perché era molto minuta, qualcuno addirittura la chiamava “lillipuziana”. Una mattina, appena alzata, le chiesi se c’era la colazione. «Non contare su quello che ti daranno qui», rispose, spiegandomi che mangiare lì significava raccogliere con la lingua briciole dal piatto. Vedendo che si stava preparando ad uscire, le chiesi dove andava. «A lavorare», rispose. «Se vuoi mangiare abbastanza, devi lavorare». Le chiesi con insistenza di portarmi con lei. Mi avvertì: «Però poi non ti lamentare e non chiedermi di tornare indietro, perché torneremo solo stasera». Così andammo a lavorare per le educatrici, nei campi. In parole povere, eravamo diventate delle schiave.

Lavoravamo per poter mangiare, comprarci le medicine o le scarpe. In cambio ricevevamo cibo avanzato da uno o due giorni, o pane ammuffito. Ma eravamo contente. A qualcuno, ogni tanto, davano anche dei soldi. La mia vita è andata avanti così. D’estate potevamo raccogliere la frutta e mangiare bene e a sufficienza. D’inverno era più dura. Quello che ci davano da mangiare non si poteva chiamare cibo, non lo si sarebbe potuto dare nemmeno ai cani. Ed io, giorno dopo giorno, diventavo sempre peggiore. Andavo contro tutti, contro la legge, contro la natura e contro Dio.

Spesso mancava l’elettricità. Anzi, molto spesso praticamente vivevamo senza. Non avevamo neanche il gas. D’inverno c’era un’unica stufa, nella stanza comune, e ce ne stavamo tutti assembrati lì intorno per scaldarci. A volte mi sembrava di non avere più le forze per sopravvivere.

Le prime botte
La prima volta che mi hanno picchiata avevo forse 13 o 14 anni. Volevo raccogliere legna per la stufa, non sapevo che non si poteva toccare quell’albero secco. Il direttore mi vide dalla finestra, mentre lo segavo, ordinò alle educatrici di portarmi da lui, e mi picchiò lì, nel suo studio. Poi un’educatrice mi portò in camera, mi spogliarono, mi legarono al letto e mi fecero un “impacco”: mi misero un lenzuolo in testa, presero dell’acqua da una vaschetta, mi tapparono il naso e mi costrinsero a bere due vaschette intere, poi mi picchiarono fino a lasciarmi mezza morta. Mi lasciarono così fino al giorno dopo.

Quando al mattino seguente le altre ragazze mi slegarono, pensavano che non avrei avuto le forze per alzarmi; io invece mi alzai e uscii fuori. Tutto quello che vedevo – non importa se albero o uomo o natura – mi appariva nemico. Ed io facevo di tutto per far male ad ogni cosa viva. Anche se sapevo, o almeno qualcosa me lo suggeriva, che il mio comportamento era sbagliato. Passò il tempo e vennero meno le gambe, non riuscivo più ad alzarmi dal letto; mi dissero che quella era la punizione che Dio mi mandava per i miei peccati. Un giorno volevo andare a guardare la tv, l’infermiera mi vide e mi picchiò urlando: «Perché sei uscita?». Proprio quella sera morì la mia compagna di stanza, una ragazzina ammalata di epatite virale. Era un giorno festivo e non c’era nessuno al lavoro, così trascorsi tutta la notte dormendo accanto a un cadavere. Non avevo paura della morte, ma quel giorno provai dolore, un dolore acuto al petto. Mi trascinai fino al tetto e gridai: «Perché mi punisci? Perché ti comporti così con me? Se sei Dio, restituiscimi le mie gambe». In quel momento cominciò a piovere forte, con tuoni e lampi.

Trascorso un po’ di tempo, nel nostro istituto tutto cominciò a cambiare. Qualcuno scrisse una lettera all’ufficio di competenza per il controllo delle condizioni in cui vivevano i disabili. Comparve una commissione, cominciò a controllare tutto. Terminato il controllo, si insediò un nuovo direttore, che rimase molto sorpreso nell’apprendere che io una volta potevo camminare. E, fatto assolutamente insolito, fin dal primo giorno si mise d’impegno per curarmi. Tutti si stupirono: era come se quell’uomo fosse stato mandato lì apposta per me, perché io potessi ancora camminare.

Di nuovo in piedi
Mi portò in varie città e ospedali, alcuni perfino a pagamento, e sebbene tutti i medici confermassero la diagnosi di invalidità permanente, lui per due anni cercò di guarirmi. Non dimenticherò mai quello che mi disse un giorno: «Zebò, io ho fatto di tutto per te, ma sei tu che devi voler guarire, ritrovare le forze e alzarti in piedi. Non aver paura di cadere, ti tengo io». Persino in quell’occasione io pensai al male: «Va bene, mi rimetterò in piedi e continuerò a vendicarmi contro di Te». Ripresi a camminare, e tutti, compresi i medici, dissero che si trattava di un miracolo. Continuai a vivere come prima. Benché mi avesse restituito l’uso delle gambe, continuai a percorrere le strade più oscure. Spesso nella mia vita accadevano dei miracoli, ma io non li volevo riconoscere.

Fino al giorno in cui, come un uccellino, venni liberata da quella gabbia. Tutti dissero che era stato un miracolo. E allora fui costretta a riconoscere “qualcosa”. Nonostante avessi maltrattato o offeso molti di loro, vennero tutti a salutarmi alla partenza. Anche quelli che non potevano camminare.

Fui adottata da una donna solo perché potessi diventare il bastone della sua vecchiaia. All’inizio non voleva nemmeno farmi entrare in casa sua; mi fece entrare solo perché la legge la obbligava. Quando mi trasferii da lei stavo male perché sapevo che non era una mia parente, ma ancora peggio sono stata per come si rivolgeva a me: mi resi conto che per quella donna non ero nessuno e non le servivo a nulla. Le dissi allora: «Prestami i soldi per andare in Russia; quando avrò lavorato un po’ laggiù, ti restituirò tutto». All’inizio non voleva darmeli, ma poi, non so se per calcolo o per quale altra ragione, decise di prestarmi i soldi necessari.

Dopo cinque giorni di autobus, arrivai in Russia. Non conoscevo nulla di quel paese, ero come un coniglietto ferito, non sapevo dove andare, né a chi chiedere aiuto. La donna che mi aveva adottata, però, siccome non si fidava di me e non credeva che sarei riuscita a restituirle i soldi, mi aveva dato l’indirizzo di sua sorella, che viveva lì. La vita non smetteva di mettermi alla prova.

L’incontro che ha cambiato tutto
Poi un giorno, uscendo da un mini-autobus, qualcosa dentro di me si svegliò e cominciò a parlarmi. Allora io dissi: «Signore, indicami il sentiero giusto, perché io smetta di sbagliare». E dopo qualche tempo la incontrai. La persona che mi ha permesso di riconoscere chi sono veramente: una ragazza che, afferrandomi e tirandomi fuori da un buco nero, mi ha mostrato il vero amore di Dio.

Da quel momento la mia vita ha cominciato a cambiare. Attraverso quella ragazza ho incontrato altri amici, che aiutavano lei a mostrarmi la verità. Non mi sembravano nemmeno persone, ma angeli in corpi umani. Quello che avevo perso all’età di 9 anni – quel cielo azzurro – si è riaperto in quel momento. Sono tornata ad essere felice. Felice come lo ero stata prima di vedere la morte.

Quello che vi ho raccontato è la pura verità. Se sei ferito nel corpo, ti puoi curare anche da solo. Ma quando ad essere ferito è il cuore, senza l’aiuto di altre persone non ti puoi curare, non ne esci da solo. Attraverso l’aiuto di queste persone che io chiamo amici, il Signore stesso mi ha guarita. Se un tempo ho combattuto contro di Lui, ora invece desidero stare con Lui. Imparare ad amare come ama Lui. Credere a Lui, come Lui crede in noi. Voglio questo. Lo voglio infinitamente.

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