L’Argentina di papa Francesco è di nuovo sull’orlo del lastrico. Colpa delle scellerate politiche della Kirchner

Collasso del Pil, bollette energetiche da 15 miliardi mai pagate, indici di inflazione e povertà alle stelle. E la gente è ancora una volta sul piede di guerra

Un anno fa un argentino ha fatto alzare in piedi mezzo mondo sbalordito. Un anno dopo un’argentina rischia di far cascare per terra mezzo mondo angosciato. Mentre il loro paese sta andando a sbattere contro il muro come un’auto che ha i freni guasti da parecchio tempo senza che nessuno si sia preoccupato di ripararli. Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, e Cristina Fernandez, vedova Kirchner e presidente da sei anni, sono le due facce dell’Argentina nel mondo: quella da guardare per salire tutti più in alto, e quella che rischia di far sprofondare tutti nell’abisso.

Perché il problema è il seguente: la crisi valutaria del peso argentino, che nelle prime tre settimane di gennaio ha perso il 18,6 per cento del suo valore ufficiale dopo avere già perso un altro 33 per cento nel corso del 2013, rischia non solo di riportare l’Argentina al ciclo delle iperinflazioni, della violenza sociale e dell’instabilità politica degli anni Ottanta del XX secolo, ma di contagiare i mercati emergenti secondo il paradigma del 1997-98, quando nel giro di un anno le finanze pubbliche di Thailandia, Indonesia, Filippine, Malaysia, Corea del Sud e Russia (le economie emergenti di allora) andarono pesantemente in rosso e i Pil pro capite crollarono in un anno dove il 10, dove il 20 e dove il 40 per cento.
Titolava il quotidiano spagnolo La Razon settimana scorsa: “I paesi emergenti alzano i tassi di interesse per blindarsi di fronte alla crisi argentina”. E l’Economist non era da meno: “Mercati emergenti. È come nel 1997”. Marc Chandler di Brown Brothers Harriman, la più antica e grande banca commerciale americana, ha avvertito: «Un collasso del Pil e/o del mercato azionario dell’Argentina non dovrebbe avere un grosso effetto sul Brasile. Però, considerata la tendenza generale negativa dei mercati emergenti, ci sarà probabilmente un impatto collaterale sull’insieme dei mercati emergenti».

Dunque è successo che, stanca di svenarsi a fiotti di 100 milioni di dollari al giorno per difendere il cambio vigente, il 23 gennaio scorso la Banca centrale argentina ha mollato la presa e in un solo giorno il peso ha perso il 13 per cento del suo valore. Le riserve valutarie argentine si sono ristrette negli ultimi due anni come un ghiacciaio in tempi di global warming: ammontavano a 47,8 miliardi di dollari nell’ottobre 2011 quando il governo iniziò la sua crociata contro la fuga dei capitali, e oggi sono ridotte a 29 miliardi.

La contabilità creativa
All’orizzonte si profilano scadenze da far tremare le vene ai polsi: c’è una bolletta energetica da saldare pari a 15 miliardi di dollari, in gran parte dovuti alla Bolivia e al Qatar, e vecchi debiti da ripagare per 10 miliardi a paesi del Club di Parigi, cioè quelli che accettarono di rinunciare ai due terzi del valore nominale dei loro crediti in occasione della ristrutturazione del debito argentino dopo il famoso default del 2001.
Infine la Corte suprema degli Stati Uniti deve stabilire se gli hedge fund che non hanno aderito ai termini della ristrutturazione devono effettivamente essere ripagati di 1,5 miliardi di dollari dal Tesoro argentino, come ha sentenziato un tribunale di New York. Insomma, l’Argentina che fra il 2002 e il 2008 aveva visto rinascere la sua economia, con tassi di crescita del 9 per cento annuo, bilancia dei pagamenti con l’estero in attivo e riserve valutarie in costante aumento, rischia di restare a secco di riserve in dollari nel giro di un anno. Ovvero rischia di passare dal miracolo economico alla tragedia economica.

Di qui la necessità imperiosa di cessare il sostegno al peso. Ma la svalutazione da sola non potrà salvare l’Argentina. Ci vorrebbe anche un po’ di disciplina fiscale (diminuire la spesa dello Stato), tassi d’interesse più alti dell’inflazione, meno contabilità creativa e più trasparenza. Esattamente il contrario di quello che è stato fatto a partire dagli ultimi anni della presidenza di Nestor Kirchner e si è continuato a fare in quelli di Cristina. Sotto il loro governo la verità dei numeri è stata abrogata: nel 2007 tutta la dirigenza dell’Indec, l’Istat argentino, è stata tolta di mezzo e i migliori statistici sono stati licenziati. Da allora i dati relativi all’andamento del Pil e soprattutto quelli relativi all’inflazione sono costantemente manipolati per fare piacere al governo. Fondo monetario internazionale e Banca mondiale li disconoscono e rampognano le autorità per il loro comportamento, ma senza esito: nel 2011 è stata addirittura introdotta una norma che punisce gli istituti privati che forniscono stime dell’inflazione diverse da quelle ufficiali.

Una società di consulenza è stata effettivamente multata di 88 mila dollari per avere scritto la verità sull’inflazione argentina. Che non corrisponde al 10 per cento annuo, come afferma il governo, ma al 28: la quarta o quinta al mondo nel 2013. E che secondo le previsioni degli specialisti salirà al 34 per cento quest’anno. Ugualmente inattendibile è il tasso di cambio. Anche dopo la brutale svalutazione della settimana scorsa, il peso resta sopravvalutato, il divario fra il cambio ufficiale e quello reale è importante: mentre il primo è passato in un mese da 6,5 pesos per un dollaro a 8, il secondo ha oscillato per stabilizzarsi attorno a 12,9.

Nel settembre scorso il peso ufficiale stava a 5,7, mentre al mercato nero si comprava un dollaro con 9,2 pesos. La cosa divertente è che, mentre comunicare dati non ufficiali sull’inflazione comporta punizioni pecuniarie, i giornali sono liberi di pubblicare, a fianco del cambio ufficiale, quello del “dollaro blu”, come viene chiamato in Argentina il dollaro che si compra al mercato nero. L’esistenza di tale fiorente mercato dipende da due fatti: la radicata sfiducia dei consumatori nei confronti del peso e delle politiche monetarie del governo e le oppressive politiche di controllo dei capitali. Per impedire emorragie di dollari il governo è ricorso a ogni manovra, come quella di mettere un tetto agli acquisti all’estero tramite internet fatti con carta di credito, una delle astuzie dei consumatori argentini per aggirare la tagliola dell’inflazione. D’ora in poi non potranno essere più di due all’anno, dopodiché su quelli successivi sarà applicata un’imposta del 50 per cento sul valore della transazione da pagare presso gli uffici della dogana.

Dopo le nazionalizzazioni
La Kirchner e i suoi ministri hanno dato la colpa delle difficoltà del peso agli speculatori internazionali. Ma gli squilibri sono chiaramente macroeconomici. L’Argentina è andata bene fino a quando i prezzi delle materie prime – principalmente quello della soia, l’esportazione argentina numero uno – sono rimasti alti. In quegli anni di vacche grasse i profitti sono stati spesi in sussidi ai consumi di elettricità, di gas e di carburante per autoveicoli, sempre più costosi per la crescita della domanda. Nulla è stato investito nelle infrastrutture o per promuovere la competitività del paese al di là delle esportazioni agricole.

Così quando la bilancia dei pagamenti con l’estero ha cominciato ad andare in passivo, i Kirchner non hanno trovato di meglio che darsi alle razzie: prima hanno messo le mani sulla liquidità del Fondo nazionale pensionistico nazionalizzandolo, poi hanno espropriato le concessioni di compagnie aeree (Aerolineas Argentinas), ferrovie, posta, la società di gestione dei servizi idrici (Aysa), frequenze radiofoniche, eccetera. Fra le proteste non solo della Spagna, ma delle compagnie petrolifere di quasi tutti i paesi latinoamericani, hanno rinazionalizzato la Ypf, che era stata ceduta agli spagnoli di Repsol. Quest’ultima vertenza è ancora aperta, e il governo argentino vorrebbe indennizzare gli spagnoli niente meno che con titoli di Stato del Tesoro argentino…

Finite le opportunità di nazionalizzazione o di manipolazione delle concessioni, il governo, assunto il controllo di fatto della Banca centrale, ha preso a stampare carta moneta a suo uso e consumo. Quanto sia andata fuori controllo la situazione lo illustra una dichiarazione dell’ex governatore della Banca centrale Martin Redrado: «Quando ho lasciato la Banca centrale nel 2010 avevamo 50 miliardi di dollari di riserve e il rapporto fra le riserve e la base monetaria era di uno a quattro. Ora il rapporto è uno a tredici. Dietro a ciò ci sta un eccesso di spesa pubblica e il finanziamento monetario da parte della Banca centrale di un crescente deficit fiscale».

La strategia della Fed
Prima che nel tracollo del peso, il fallimento di queste politiche si è manifestato negli interminabili black-out elettrici che  hanno colpito Buenos Aires e provincia nel pieno dell’estate australe e nei saccheggi di migliaia di negozi in dieci province del paese durante lo sciopero degli agenti di polizia che reclamavano importanti aumenti salariali. I mancati investimenti nel settore dell’energia hanno reso l’Argentina, paese produttore di idrocarburi, dipendentissima da costose importazioni di prodotti raffinati e le sue infrastrutture per la distribuzione fatiscenti. I sussidi e le distribuzioni di risorse a pioggia non hanno sconfitto la povertà: 2 milioni di argentini sono indigenti e 10 milioni sono poveri su una popolazione di 41 milioni, secondo uno studio indipendente dell’Università cattolica argentina.
Tuttavia il governo peronista di sinistra non ha nessuna intenzione di modificare le politiche sin qui condotte. Cristina Fernandez Kirchner, che nel corso del 2013 ha avuto seri problemi di salute, ha già fatto sapere che non ripresenterà la sua candidatura alle presidenziali del 2015. Un modo elegante per evitare di doversi fare carico di politiche impopolari di taglio della spesa pubblica e di fluttuazione del peso non più rinviabili. Pena la stagflazione: stagnazione del Pil (che nel 2014 crescerà di poco più del 2 per cento) e inflazione sopra il 30 per cento.

In tutto questo un influsso ce l’ha anche la nuova politica monetaria della Federal Reserve, che dopo aver stimolato crescita e occupazione in America dopo la crisi finanziaria del 2008 con massicci acquisti di debito pubblico, ora che negli Stati Uniti le cose vanno meglio ha deciso di sforbiciare gli acquisti e, in prospettiva, rialzare i tassi di interesse. Da dicembre a gennaio gli acquisti mensili di debito pubblico da parte della Fed sono scesi da 85 a 65 miliardi di dollari. L’effetto sifone sui capitali internazionali non si è fatto attendere: dalla Turchia all’India al Sudafrica all’Argentina, i capitali hanno preso a fuggire verso Washington e a provocare svalutazioni, costringendo i governatori delle banche centrali ad aumentare i tassi di interesse. Gli unici che reagiscono in modo poco logico sono gli argentini. Con grande apprensione di tutti gli altri.

@RodolfoCasadei

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