Jocelyne o dell’amicizia delle armi

In memoria di un'amica cristiana libanese, morta due giorni fa dopo lunga malattia e che, forse, mi salvò pure la vita

Ho pregato il direttore di Tempi di rieditare una intervista che Jocelyne Khoueiry (la vedete nel video qui sotto), attivista e femminista cristiana libanese morta due giorni fa dopo lunga malattia (ringrazio la collega Maria Acqua che mi ha dato notizia della sua scomparsa, dove l’avremmo letta altrimenti?) rilasciò nel 2013 alla tv vaticana. Anche per me è stata un gradita sorpresa. Un inedito.  

«Eravamo dodici ragazze sulle barricate. Difendevamo un palazzo in centro a Beirut. Una notte ci assediano a centinaia. Io salgo in cima e riesco a calarmi nel palazzo vicino. Sotto di me vedo che c’è il comando degli attaccanti. Faccio quello che devo fare». «Oooh», fa la giornalista, «immagino che per la sua coscienza cristiana sia stato duro…».

Vado a memoria. Ma il senso è quello. Viviamo nel mondo della pace e delle meraviglie kantiane da parecchi lustri. Lo stesso tempo in cui in Libano non c’è mai stata pace. E quando non c’era guerra c’erano le autobombe, puntuali come i nostri weekend fuori porta.

«Non è stato duro. Il cristiano in guerra fa la guerra. Che altro dovrebbe fare? E poi si capisce che neppure in un convento di suore c’è un’amicizia più alta dell’amicizia delle armi».

Un incontro di sfroso

Jocelyne Kuery era un bel tipo. A 17 anni ha imbracciato il kalashnikov trascinandosi dietro dodici amiche coetanee. E a trenta ha lasciato il mestiere della guerra per fare con lo stesso piglio e serenità da antica giovinetta medievale un’associazione caritativa e poi altre due o tre Ong per l’emancipazione delle donne. Era una patriota perché era una cristiana semplice ma radicata in una storia non di bamboline da pettinare per dirla col vecchio Bersani, ma fatta di avventuroso sacrificio e gloria fino al sangue pur di restare quello che Cristo ha fatto con la Sua Grazia, e cioè libertà, esseri liberi. Ho conosciuto Jocelyn – come si dice- “di sfroso”, a Beirut più di trent’anni fa. E poi in una qualche conferenza, stando alla versione di Maria Acqua, giornalista dello svizzero “Il federalista”, che l’ha studiata e di cui attendiamo qui un più approfondito ritratto. L’occasione del nostro incontro fu abbastanza strana. Alloggiavo in un piccolo hotel di Beirut est in cui alloggiava di passaggio anche Antonio Ferrari. Collega del Corriere, io allora ero in Libano per Il Sabato. Però in quei giorni di guerra fratricida Ferrari era altrove e in quel piccolo hotel mi sorprese sapere che ero l’unico ospite. A un tiro di sputo da lì il generale libanese cristiano Michel Aoun dichiarava ancora di voler «rompere la testa ai siriani» benché fosse assediato da tutte le parti dagli alleati del siriano Assad Senior che si voleva annettere il Paese dei cedri. Se non ricordo male anche le Forze libanesi (falangisti cristiani) attaccavano da est il generale, ed erano alleate nei fatti agli acerrimi nemici del giorno prima e dei giorni seguenti. A loro volta alleati a corrente alternata e nemici sempre – gli sciiti di hezbollah, i sunniti di Amal, i drusi di Jumblatt, l’esercito siriano – come sapeva il professionale corrispondente di AP da Beirut poi numero 1 agli esteri del New York Times, Thomas L. Friedman, quando gli israeliani occuparono il sud del Libano, a turno i loro generali venivano impegnati dai leader locali delle diverse fazioni, quasi sempre portando ceste di teste o sacchi di resti umani. «Guarda cosa ci hanno fatto questi e quelli» dicevano chiedendo l’autorizzazione a vendicarsi di questa o quest’altea fazione. «Ma in Libano non esistono verità, esistono solo versioni» metteva in guardia il comandante di Tsahal il giornalista americano (Leggetevi di Friedman questo grande libro dell’epoca, Da Beirut a Gerusalemme e capirete di più il clima).

Quell’hotel non è sicuro

Nel mio piccolo, il giorno che avevo messo piede in ambasciata italiana mi era stato detto tra il serio e il faceto: «Hai bisogno di far sparire tua moglie? Una partita di droga? Un carico di armi? Questo è il tuo posto. Benvenuto nel paese più libero del mondo». E comunque Jocelyn – che fino a quel momento non sapevo neanche chi fosse – quel giorno mi mandò qualcuno a prelevare da quell’hotel e mi fece portare sulle colline dell’interno, in una casa di famiglia, prima di affidarmi a un padre maronita che mi alloggiò in un convento. «Quell’hotel non è un posto sicuro». Jocelyne aveva già smesso di combattere con i kalashnikov e aveva capito che l’unica strada per il Libano era quella della pacificazione che passava anzitutto per l’unità dei cristiani. Già, perché la fine del Libano “Svizzera del Mediterraneo” e “isola di libertà” (pensate che nei primi anni 90 c’erano già le moto d’acqua e la vita di spiaggia non si interrompeva neanche sotto le bombe), non è stata decretata dalla Siria o da Israele, dai drusi o da Hezbollah. La fine del Libano inizia col conflitto tra cristiani a colpi di omicidi politici e autobombe. Si ripeteva quello che era accaduto sotto Bisanzio, la fine della civiltà cristiana per collasso della vita cristiana prima che per le invasioni islamiche. È quello che sta accadendo in Europa. Con la morte che trionfa non per radicalismo islamico o Lgbt, ma per confusione nella testa, divisione e codardia di noi cristiani. Il mio reportage uscì titolato da Giuseppe Frangi ma ovviamente ispirato da don Giacomo Tantardini, con uno dei titoli più perfetti che ricordi: “Libano, la prova del peccato originale”. Scusate il disturbo. Volevo qui soltanto rendere onore a un’amica di sfroso. Che chissà – lo saprò quando ci rivedremo – forse mi ha pure salvato la vita.

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