L’insostenibile pesantezza di Saviano ad “Amici”

Sullo “scandalo” della partecipazione di Roberto Saviano alla prima puntata della nuova serie di Amici condotto su Canale 5 da Maria De Filippi hanno già speso sufficiente e intelligente inchiostro Aldo Grasso e Oliviero Beha. Per lo scrittore e personaggio televisivo napoletano nutro profonda avversione, l’avversione che si riserva ai profeti autoproclamati e ai martiri che spettacolarizzano il proprio martirio, a coloro che si compiacciono di un gesto di coraggio compiuto in vita e su quello costruiscono un personaggio che soffoca e nasconde la persona reale. Quella fatta di slanci e di debolezze che tutti siamo. Avere avuto il coraggio di sfidare la camorra con un libro ben riuscito non conferisce perciò stesso autorevolezza a ogni parola che poi esca dalla bocca o dalla penna di chi quel coraggio ebbe. Una sciocchezza resta una sciocchezza anche se chi la pronuncia è un vate dell’anticamorra, e in questi anni di sciocchezze o almeno di prese di posizione discutibili Saviano ne ha riversate sul pubblico a palate.

L’altra cosa insopportabile dello showman partenopeo è quel suo specchiarsi narciso nella propria condizione di persona in pericolo di vita, di personalità sotto scorta, quella sua ricerca sfrenata dell’ammirazione da parte del pubblico per avere scelto di vivere la vita di chi è vivo provvisoriamente, di chi è permanentemente minacciato di morte. Chi nella vita decide di rischiare del suo per servire un ideale, chi accetta di sacrificare qualcosa di sé – la libertà, la sicurezza, insomma la vita – deve farlo con sobrietà, con pudore, con misura. Perché non si tratta di attirare l’attenzione su di noi, ma sul valore, sull’ideale per il quale sacrifichiamo qualcosa, molto, tutto. È così che si esercita una pedagogia seria verso le persone che ci leggono o che ci ascoltano, altrimenti li si trasforma in complici di una sceneggiata sentimentale.
E su questo lascio volentieri la parola ad Aldo Grasso: «Questa volta il problema non è il contesto, ma il testo. (…) Saviano liscia il pelo al pubblico, da imbonitore del benpensantismo, dicendo solo quelle cose per cui, colpevolizzandoci, dovremmo poi sentirci più buoni, più impegnati, più umanitari. Saviano ha estremo bisogno di qualcuno che lo aiuti a uscire dall’impasse in cui si trova. Vittima (in senso letterale) del suo strepitoso successo, non ha saputo ripetersi come scrittore, cambiando editore, non è opinionista (deludenti i suoi interventi settimanali), non è showman. È solo Saviano che recita Saviano, un marchio da sfruttare, un ragazzo adulto che deve trovare il coraggio di ripartire. Maria De Filippi, come al solito, lo ha capito prima di tutti e lo ha arruolato nel suo variegato circo».

Di mio e di originale aggiungerei una cosa. L’obiettivo di Saviano con la sua partecipazione ad Amici era di suscitare l’empatia dei giovani talenti italiani nei confronti delle centinaia di migliaia di migranti che con ogni mezzo cercano di abbandonare i loro paesi e di venire a vivere in Europa. Perché l’empatia è la capacità psicologica che rende possibile la solidarietà, è la sua premessa. In sintesi ha detto alla truppa della De Filippi: «Voi e loro avete un punto in comune: siete disposti a tutto per inseguire un sogno. Per voi si tratta del sogno di valorizzare il vostro talento e di riuscire nel mondo dello spettacolo, per loro quello di abbandonare la terra natìa e venire a vivere in Europa. Prima di qualunque presa di posizione sulla questione dell’immigrazione, tenete conto di questo».

Mi ribello a questa concezione riduttiva dell’empatia. Sentire quello che l’altro sente non è qualcosa che riguarda solo le sue aspirazioni, declinate nel presente. Se non riguarda anche il suo passato e il suo futuro, non è vera empatia. Emigrare significa sradicarsi. Abbandonare la terra in cui si è cresciuti, e i volti che ci hanno fatto crescere. Rompere col passato e consegnarsi a un futuro di luoghi e di persone che per molto tempo resteranno estranei perché non evocheranno più ricordi. L’insostenibile ideologia e l’insopportabile retorica dell’uguaglianza impediscono di percepire un fatto duro come la pietra: l’immigrato sarà un uomo antropologicamente più povero degli uomini che abitano da prima di lui la terra in cui andrà a vivere. Questa povertà si rifletterà anche nei suoi figli, saranno loro a ricordargli che manca qualcosa, a ribellarsi per un vuoto che loro avvertiranno e del quale il genitore non ha voluto parlare.

Provare empatia per i migranti non significa semplicemente sintonizzarsi col dolore che li spinge a partire: il dolore dell’impossibilità materiale di vivere da adulti lì dove si è nati, il dolore di non potere essere liberi politicamente, il dolore per le umiliazioni patite da parte di chi detiene potere e autorità in sistemi autoritari e società gerontocratiche, eccetera. Significa più compiutamente simpatizzare col dolore futuro, quello imminente e quello remoto, dell’esperienza di estraneità e di alienazione che farà colui che attraversa il mare per venire a stare in Europa.

Scrive magistralmente Eugenio Borgna nel suo ultimo libro Il tempo e la vita: «Quando siamo in esilio, o abbiamo cambiato casa, o siamo stati sradicati dalla nostra patria, non si modifica solo il tempo interiore, il tempo vissuto, ma anche lo spazio vissuto: il modo di vivere e di sentire lo spazio. Nel paese straniero, ma anche nella nuova casa, il linguaggio delle cose, il linguaggio del paesaggio, si trasforma profondamente. Quelle terre, e quegli orizzonti, si fanno estranei e insignificanti quando abbiano a essere luoghi d’esilio. Spazio e tempo, drasticamente mutati nella loro forma e nelle loro risonanze emozionali, si fanno categorie inquietanti e stranianti: portatrici di solitudine e di silenzio. Il mondo, in cui si è esiliati, o sradicati, è contrassegnato dalla estraneità e dalla inconoscibilità. Non ci riconosciamo più in questo tempo e in questo spazio, in questo silenzio e in questo paesaggio, in questi ghiacciai dell’anima e in questo fiammeggiare dell’angoscia, in queste cifre nascoste e illeggibili di una realtà che è divenuta così estranea; e la perdita della patria, ma anche la perdita della casa in cui si abitava con la sua storia e le sue memorie, si accompagnano a inquietudini e a smarrimenti che lasciano ferite non sempre rimarginabili».

Ringrazio Borgna per avere descritto con la sua lucidità e la sua espressività quello che io tante volte ho provato vedendo i cristiani di Iraq e di Siria intenti a preparare il proprio esodo dall’Oriente o incontrando iracheni e siriani già emigrati in Europa. Una stretta al cuore presentendo l’inaridimento che li avrebbe colpiti lontano dalla terra dei loro padri, una comprensione diretta e cordiale dello smarrimento e del lutto affettivo dei già emigrati. Mi ha sempre molto impressionato il fatto che fra i caldei (Chiesa orientale in comunione con Roma) dell’Iraq il numero delle vocazioni sacerdotali e religiose si mantiene adeguato alle necessità delle comunità finché restano a vivere in Iraq, mentre diminuisce e tende ad annullarsi nella diaspora. Un indizio molto chiaro del senso di straniamento e di alienazione di chi va a vivere in un mondo troppo diverso da quello che ha dovuto lasciare.

Ma i ghiacciai dell’anima e il fiammeggiare dell’angoscia sono realtà troppo poco televisive e troppo profonde per chi ha accettato di diventare la statua di se stesso.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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