L’importante è vincere

Il campione era ricordato con monumenti, portava fama alla sua città. Per il perdente, oltre la delusione, anche gli sbeffeggiamenti. Somiglianze e differenze tra i Giochi dell’antichità e quelli moderni. Non c’è più Zeus ma c’era già Usain Bolt

Pubblichiamo l’articolo pubblicato sul numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti). L’autore è ordinario di Letteratura greca presso l’Università degli Studi di Milano.

Eccolo: puntuale come il Frecciarossa, poche settimane prima delle Olimpiadi esce un nuovo libro sullo sport nella Grecia antica. Non c’è niente di male, sia chiaro, anzi, è giusto; non solo per un’ovvia legge del mercato editoriale (bisogna battere il ferro quando è caldo), ma anche per ragioni più sostanziali. Le Olimpiadi antiche sono il modello delle nostre Olimpiadi; se vogliamo capire perché mai ogni quattro anni vada in scena questa gigantesca kermesse dello sport mondiale, dobbiamo tornare ai greci. Ma tornare ai greci significa “tirare una riga” tra passato e presente: pensare a quel che poté essere, per esempio, l’Olimpiade del 464 a.C., immaginare che cosa saranno i Giochi di Rio del prossimo agosto, e cogliere le somiglianze e le differenze tra i due eventi (separati, non dimentichiamolo, da un abisso di venticinque secoli).

È quello che hanno cercato di fare gli autori del bel volume L’importante è vincere: l’antichista Eva Cantarella e il giornalista sportivo Ettore Miraglia. Già il titolo suggerisce l’idea di fondo del libro, riassumibile nella formula “I greci: così vicini, così lontani”. Il motto “l’importante è partecipare, non vincere” dovrebbe essere, secondo i più, la regola basilare delle antiche Olimpiadi. Ma non è affatto vero: per i greci l’importante era vincere, non partecipare. La vittoria nelle gare atletiche dava fama al vincitore, alla sua famiglia, alla sua città: era celebrata con cerimonie, ricordata con monumenti. Per chi perdeva c’erano solo delusione e amarezza; anzi, lo si derideva: nell’epinicio in onore di un giovane lottatore, Pindaro – il più grande “cronista sportivo” dell’antichità – si fa beffe dei quattro ragazzi sconfitti, che «non ebbero un buon ritorno: la madre non li accolse con un bel sorriso, e camminavano rasente ai muri nei vicoli, per schivare gli sberleffi degli amici».

Oltre alle differenze
Vale quindi per lo sport quello che vale anche per le altre manifestazioni del genio greco: bisogna stare in guardia dal “farle nostre” distorcendole in modo anacronistico. Quando si pensa alla Grecia di Pericle, il pericolo maggiore è di “antichizzarla” secondo stereotipi moderni. Non c’è niente di meno greco delle architetture neoclassiche: bianche facciate, asettiche geometrie di forme, così lontane dalla irregolarità e dalla policromia dei templi antichi, interamente ricoperti da stucchi colorati. Quando il poeta Angelo Sikelianòs ebbe l’idea di ricreare le antiche Feste Delfiche, nel clima di esaltazione prodotto dalla riscoperta del santuario di Delfi, pensò ad attori paludati, ieratici nei movimenti, ad atleti bloccati in rigide posture. Le foto dell’epoca (siamo alla fine degli anni Venti del Novecento) oggi fanno quasi sorridere: l’archeologia è molto progredita, e ora sappiamo bene che le feste dell’antica Grecia erano chiassose, movimentate, persino scomposte.

Dobbiamo concludere, allora, che le nostre Olimpiadi hanno, di greco, soltanto il nome? Che il barone de Coubertin, il fondatore del movimento olimpico moderno, corse dietro a una fantasia inconsistente? La risposta è certamente negativa: al di là delle differenze (che sono molte e rilevanti), l’Olimpiade di ieri e l’Olimpiade di oggi sono tenute insieme da un nucleo comune, una sorta di territorio condiviso, fatto di gesti e di idee. Il punto essenziale è questo: tra lo sport dei greci e lo sport praticato ai nostri giorni c’è una riconoscibilità reciproca. Un atleta di Rio 2016 potrebbe dialogare con un olimpionico del V secolo a.C.: potrebbe confrontarsi con lui sul terreno della preparazione fisica, ma potrebbe anche aprirgli il suo cuore, parlandogli delle sue motivazioni, delle sue speranze, delle sue paure; i due si capirebbero.

Nel film Momenti di gloria (ma il titolo originale, Chariots of Fire, è molto più bello perché contiene l’immagine pindarica della luce come simbolo di vittoria) si racconta una curiosa gara di corsa in un college di Cambridge, alla vigilia delle Olimpiadi di Parigi del 1924: gli atleti devono percorrere un giro completo del cortile, partendo nell’istante in cui l’orologio inizia a battere il mezzogiorno e arrivando prima del dodicesimo rintocco. Le condizioni sono molto diverse da quelle di una competizione su pista: non ci sono corsie, a ogni angolo bisogna rallentare e ripartire, l’equilibrio è precario, ci si sgomita a più non posso. La prova però è magnifica, ed esprime con molta evidenza i contenuti profondi della corsa a piedi: la forza fisica, la resistenza, la competitività spinta fino all’aggressività, la strenua accettazione della fatica.

Così erano le gare di corsa a Olimpia. Gli atleti, che correvano nudi e scalzi, partivano su una stessa linea, distanziati l’uno dall’altro, ma poi le traiettorie di corsa si incrociavano, soprattutto nel momento in cui si girava intorno al palo, in fondo alla pista, per iniziare il tratto di ritorno. Nella svoltata il contatto fisico era inevitabile: bisognava farsi rispettare, anche a forza di spintoni; ma è così anche oggi, per esempio nella staffetta del miglio, quando l’atleta che dà il cambio deve aprirsi un varco nel “pacchetto” degli avversari. Oggi non si gareggia nudi, e neppure scalzi; ma chi ha qualche anno sulle spalle certo ricorda il leggendario Abebe, che vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960, trepestando leggero, e senza scarpe, lungo la via Appia antica.

Corsa, lanci, salti, lotta
Le Olimpiadi greche prendevano il nome dal luogo dove si svolgevano le gare (ogni quattro anni, nel plenilunio di agosto): il santuario di Zeus a Olimpia, nella regione nord-occidentale del Peloponneso. Gli scavi condotti dagli archeologi tedeschi negli ultimi decenni dell’Ottocento hanno riportato alla luce i resti del santuario, che era ricco e splendido. Parliamo di santuario, perché i giochi olimpici, come tutte la manifestazioni sportive dell’antichità, facevano parte di feste religiose: il cerimoniale prevedeva sacrifici, preghiere solenni, consultazioni oracolari. Questa è una prima, macroscopica differenza con le Olimpiadi moderne, laiche fino al midollo. Un’altra evidente differenza è nelle dimensioni: oggi il programma olimpico è pletorico, perché accoglie in pratica tutti gli sport comunemente praticati; al tempo dei greci c’erano solo gare di atletica (corse, salti, lanci, varie forme di lotta) e competizioni equestri: in tre o quattro giorni era tutto finito.

Chi va a Olimpia oggi (e andarci è vivamente consigliabile: è un luogo di commovente bellezza, che si lascia facilmente “leggere” anche dal visitatore comune) è molto colpito dallo stadio, che è rimasto quello di venticinque secoli fa: una pista in terra battuta, lunga 192 metri, con la linea di partenza marcata da blocchi di pietra. I turisti per lo più non resistono alla tentazione di farci una corsetta, magari trascinandosi dietro le infradito da spiaggia. Non c’è nulla di sacrilego in ciò; anzi, lo si può considerare un gesto (forse involontariamente) religioso. Nelle prime edizioni dei giochi (la prima Olimpiade è tradizionalmente datata al 776 a.C.) il programma comprendeva soltanto la corsa dello stadio: il vincitore non si fermava dopo il traguardo, ma andava direttamente all’altare di Zeus, davanti alla facciata del tempio, e offriva al dio un sacrificio di ringraziamento.

Le gare equestri furono introdotte solo in un momento successivo. Però il mito – per come lo racconta Pindaro e per come era “narrato” nel frontone principale del tempio di Zeus – faceva risalire l’origine dei giochi alla corsa di carri vinta dall’eroe Pelope. Pelope era un giovane di belle speranze, che venne a Olimpia per chiedere in sposa la figlia del re della regione, Ippodamia; ma il padre della ragazza, Enomao, lo sfidò a una corsa di quadrighe, con l’intesa che in caso di vittoria Pelope avrebbe avuto Ippodamia, in caso di sconfitta avrebbe pagato con la vita. Il ragazzo accettò la sfida; ma non aveva cavalli, e dovette affidarsi all’aiuto divino. Poseidone rispose alle sue preghiere e gli regalò quattro meravigliosi puledri; con essi – e anche grazie a un abile trucchetto – Pelope sconfisse Enomao ed ebbe ciò che desiderava. La tomba di Pelope (il Pelopion) era uno dei luoghi più sacri di Olimpia: gli atleti, nelle settimane di allenamento che erano tenuti a svolgere presso il santuario prima della festa, non mancavano di visitare il Pelopion, per rivolgere le loro preghiere a colui che era percepito come il patrono dei giochi. La sua vicenda infatti spiega in modo molto chiaro che cosa sia lo sport nel sentimento greco: una manifestazione di coraggio e di abilità, ma anche di intelligenza e di spregiudicatezza; soprattutto, un’occasione di gloria: la gara è una prova che – se superata positivamente – dona al vincitore dolcezza di miele per il resto dei suoi giorni.

Il più veloce dell’antichità
Nelle Olimpiadi del 464 a.C. la parte del leone la fece un atleta di Corinto, Senofonte: ottenne la vittoria sia nella corsa dello stadio sia nel pentathlon (combinazione di corsa, salto in lungo, lancio del disco e del giavellotto, lotta): un exploit mai riuscito a nessuno nella storia dei giochi. Ancora più forte di lui fu però suo padre Tessalo, di cui Pindaro ci racconta gli incredibili trionfi. Tessalo dovette essere una sorta di Usain Bolt dell’antichità. Mieté vittorie a ripetizione, nella corsa dello stadio e del doppio stadio (equivalente ai nostri quattrocento metri), in tutte le competizioni più importanti. Memorabile fu una sua partecipazione alle Panatenee di Atene, quando «un giorno di rapido piede gli pose tre premi, stupendi, intorno alla chioma».

Leggendo questi versi, come non pensare ai trionfi di Berruti e di Mennea, o a quelli di Bordin e di Baldini? Riconosciamolo: nello sport – ieri come oggi – l’importante è vincere. I greci non si vergognavano di dirlo; noi dovremmo avere l’onestà, almeno, di pensarlo.

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