Il virus ci ha mostrato che la vera libertà dell’io si esprime in comunità

Articolo tratto dal numero di novembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Educare è una strada lunga perché mette in moto tutta la libertà dell’uomo. Pertanto, educare è sempre un rischio. Nella società in cui viviamo, dove prevale il criterio dei “diritti” (senza doveri) come disimpegno affettivo dalla realtà in cui le persone si sviluppano, quando parliamo del mondo del lavoro, troviamo sempre ciò che è “giusto” o “ ingiusto” come risultato di unilateralità, dove l’uomo è sempre “vittima” del potere. Accompagnare chi lavora – in qualsiasi ambito della vita – è una grande sfida, perché si tratta di libertà già formate e tante volte vittime della mentalità dominante sopra descritta.

Da quando è iniziata la pandemia, e quindi la quarantena, alla Fondazione San Rafael non siamo stati esenti dai problemi che ancora stanno affrontando tanti luoghi di lavoro: dalla paura di contrarre la malattia, passando per la mancanza di risorse, fino all’evidente mancanza di certezza sul futuro.

Le nostre opere educative che servono quasi 500 bambini e giovani delle zone più povere di Asunción hanno sperimentato ciò che accade in tutto il mondo: l’assenza di lezioni faccia a faccia, che per noi significa anche il problema del mantenimento economico di questo luogo.

I docenti e gli amministratori, visto il problema economico, si sono messi in prima persona a collaborare con la Fondazione. È stato commovente vedere insegnanti che, durante questo periodo di pandemia, si sono messi a vendere cibi tipici all’angolo della scuola per raccogliere fondi e quindi aiutare direttamente i loro studenti. Questo non è previsto nel contratto.

Abbiamo anche dovuto attraversare momenti drammatici a causa di un focolaio di infezione da Covid-19 riscontrato in una delle tre case per anziani. Del totale dei 70 “nonni”, i contagiati erano 20 più tutte le infermiere che si prendono cura di loro. È stato bello vedere che non solo noi ci siamo sentiti toccati da questo fatto, ma l’intera città. Da subito abbiamo dovuto allestire una sorta di ospedale domiciliare a causa dell’evidente disastro che il virus avrebbe potuto provocare negli anziani (che avevano tutti un quadro clinico già a rischio). Gli infermieri contagiati, non avendo presentato grandi sintomi, hanno deciso di restare con i “loro” nonni: «Non possiamo abbandonarli ora, non saremmo tranquilli nelle nostre case», dicevano. Anche questo non era nel loro contratto. Alla fine non abbiamo avuto nessuna vittima.

Educhiamo da più di vent’anni il personale che lavora con noi e in questi mesi abbiamo visto la bellezza di incontrare tanti “Io” che generano un clima comunitario completamente diverso da quello della mentalità dominante. Come ha detto don Luigi Giussani, «l’energia di libertà più adeguata emerge laddove l’individuo vive la sua dimensione comunitaria. In tal senso mira il paradosso di Chesterton: “Non è vero che uno più uno fa due; ma uno più uno fa duemila volte uno”» (Il senso religioso, Rizzoli).

Il non aver rinunciato a educare la nostra libertà, dandone le ragioni e aiutandoci a capire che il lavoro è un dono e non una punizione, è stato forse il più grande motore della carità che da tanti anni abbiamo portato in Paraguay. In questo senso, questi mesi di pandemia sono stati per noi una continua rivelazione dei frutti di questa educazione.

paldo.trento@gmail.com

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