Il suicidio assistito di Anna è una sconfitta della società

La scelta della donna di Trieste è una sconfitta per la medicina che decide di arrendersi e che invece può fare molto. Testimonianza di un direttore di hospice

Stavo tornando da San Giovanni Rotondo quando mi è stato chiesto di scrivere qualche riga sul caso di “Anna”, la donna che a Trieste ha scelto di andarsene con il suicidio assistito, questa volta assicurato dal nostro Servizio sanitario nazionale.

“Angela” è un altro nome di fantasia che mi permette di raccontare una piccola storia legata proprio al ritorno da San Giovanni Rotondo. Infatti “Angela”, affetta da un cancro metastatico, quasi paralizzata agli arti inferiori, e perciò allettata prevalentemente da oltre un anno, attualmente ricoverata nell’Hospice che dirigo, ha espresso anche lei un desiderio: quello di andare ancora una volta a fare visita alla tomba di S. Padre Pio, di cui è devota. Una richiesta non facile da esaudire, date le sue condizioni, e tuttavia, con la disponibilità di un infermiere, di alcuni volontari e di alcuni benefattori che hanno pagato l’ambulanza, siamo riusciti ad andare, ad accompagnarla, con sua grande gioia e soddisfazione.

I malati, anche se inguaribili, anche facendo i conti con la sofferenza e la disabilità – che però possono essere alleviate da buone cure palliative, da una “compagnia” professionale ed umana che li faccia sentire parte della vita, che ricordi loro quanto valgono e che portano con sé il segno dell’umanità, che non è solo quello della salute, della efficienza, della spensieratezza, della autonomia fisica – hanno desideri, hanno aspettative, hanno sogni, che non sono quelli di morire. Questi malati possono gioire, come ogni essere umano, possono soffrire, come ogni essere umano, l’importante è che non siano o non si sentano soli, che ci sia chi, con competenza e compassione (cioè con la capacità non di compatire, ma di patire con, cioè di farsi carico veramente del peso da portare insieme), si prenda cura di loro.

La capacità di curare sempre è il segno distintivo di una società che ha deciso di restare umana. Anche se scelto liberamente (ma siamo certi che ci sia vera libertà in questi casi?), il suicidio, compreso quello medicalmente assistito, è sempre una sconfitta per l’umano; non una sconfitta per chi lo sceglie, sulla cui vicenda umana nessuno può avanzare giudizi, ma una sconfitta per la società, cioè una nostra sconfitta, come lo è per la medicina che decide di arrendersi, quando invece può ancora offrire molto: dalla cura del dolore, sempre possibile, alla presa in carico globale grazie allo sviluppo, che speriamo sempre crescente, delle cure palliative. Ma è una sconfitta anche per la politica, che dovrebbe essere attenta ai bisogni di queste persone e delle loro famiglie e offrire soluzioni concrete a questi bisogni.

La custodia della vita è un valore innanzitutto laico, perché se diventa possibile togliere o togliersi la vita per legge, quale altro limite può non essere infranto? Perché poi, mi chiedo, fanno tanto rumore i pochi casi portati all’attenzione pubblica da Cappato e compagni e non ne fanno le migliaia e migliaia che la medicina, nelle sue varie forme assistenziali (cure palliative, anche pediatriche, cure della disabilità, cure dell’anziano fragile e così via) assiste ogni giorno? Abbiamo idea di quanta dipendenza dall’assistenza altrui hanno centinaia di migliaia di persone per le più disparate ragioni? Vogliamo veramente considerare “sostegni vitali” (dunque condizioni per l’esercizio del suicidio assistito a norma delle sentenza della Corte costituzionale – ndr) queste forme di assistenza? E infine, una domanda per i credenti, ma anche per ogni uomo: davvero pensiamo di archiviare il comandamento di Dio “Non uccidere” e così di sentirci finalmente liberi?

Marcello Ricciuti
Direttore Unità operativa di coordinamento Hospice e Cure palliative, Azienda ospedaliera San Carlo, Potenza

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